Paola è seduta di fronte alla mia scrivania. Ad ogni appuntamento comincia a parlare solo dopo qualche minuto di silenzio, come se dovesse raccogliere le energie per farlo.
«Come è andata in questi giorni a casa?»
Mi guarda come se si fosse accorta della mia presenza solo in quel momento.
«Non sono andata via neanche stavolta, dottoressa».
Mi rivolge un sorriso complice. Paola non usa mai termini come morte o suicidio. Sono parole che implicano un certo grado di allarme; le usa sempre con parsimonia. È diventata ormai una consuetudine per lei esordire così ad ogni colloquio, come se togliersi la vita fosse paragonabile a intraprendere un viaggio, ma senza ritorno.
Poi, infila le mani sotto le cosce fin troppo magre, fissa un punto nel vuoto e si incupisce.
«Anche ieri era ubriaca. Ha cominciato a urlarmi contro, dicendomi che sono egoista e che le ho rovinato la vita» dice con voce monotona. Abbassa la testa.
Mi sporgo in avanti e appoggio i gomiti sulla superficie dello scrittoio.
«Ha alzato ancora le mani?»
Se non la sprono a parlare, la ragazza è capace di stare in silenzio per tutta la seduta.
«Non ha fatto in tempo». D’un tratto, si raddrizza sul posto e mi guarda negli occhi. «Stavolta ho reagito».
«Sei stata brava…» Il mio cuore salta un battito per l’improvviso picco di tensione, ma la mia voce è calma. Paola non si ribella mai alle percosse della madre; piuttosto che opporsi, infierisce su sé stessa.
«Raccontami cosa è successo».
«L’ho abbracciata e le ho detto che le volevo bene lo stesso» dice accennando un sorriso. «Le ho detto anche che speravo me ne volesse anche lei, nonostante io sia la causa della sua infelicità».
«E lei?»
«Si è messa a piangere… Però non mi ha picchiata. È già qualcosa, no?» mi guarda con i suoi occhi fin troppo grandi incastonati in quel faccino smunto.
Le rivolgo il sorriso più rassicurante che mi riesce e lei ricambia. Paola mi ricorda un complicato ingranaggio che, quando funziona, lo fa meravigliosamente.
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