Cara signora Ozick,
mi auguro che questa mia lettera La trovi in buona salute.
Spero che apprezzi che le abbia scritto una lettera cartacea, come si usava una volta. Mi piaceva l’idea che, ricevendola, si chiedesse chi fosse il mittente sconosciuto che si prendeva la briga di contattarla in maniera ormai così obsoleta. Forse sono un’inguaribile romantica, ma ora la immagino seduta su una poltrona di pelle logora, davanti a un’immensa libreria. Accanto a lei c’è un tavolino con sopra una tazza di tè caldo e, mentre legge queste parole, lo sta sorseggiando.
Mi rendo conto che di elogi ne riceverà a profusione, e magari i miei finiranno nel cestino della carta straccia, ma se mi sta leggendo veramente su quella poltrona consumata dal tempo, le dico: grazie. Grazie di esistere come scrittrice, e ringrazio ogni evento o persona che ha contribuito a farcela diventare. Le sono grata di essersi fatta carico del dolore di molti per rappresentarlo nei personaggi delle sue storie con così profonda sensibilità.
In questi giorni, sto leggendo il suo romanzo “Eredi di un mondo lucente” e le confesso che lo sto facendo con deliberata lentezza per il timore di arrivare troppo presto all’ultima pagina. Con le sue parole è riuscita a dare voce a personaggi emarginati e soli, trasformando la prosa in poesia. E non parlo solo dei profughi Mitwisser, approdati a New York dalla Germania nazista, ma soprattutto della protagonista, Rose. Un’orfana senza un posto dove andare che si ritrova erede di un passato fumoso e di un destino incerto, ignorata dalla famiglia che la ospita e da un mondo duro e alieno che la respinge.
Le confesso che ogni tanto interrompo la lettura e torno indietro a qualche brano che mi ha colpito particolarmente. E allora, entro con Rose nella sala lettura della New York Public Library e vedo lo stesso velo che “si agitava nel vuoto spazioso sopra tutti quei colli piegati, come se in quel nulla ci fossero degli spettri che giocavano: esseri invisibili che cantavano a bocca chiusa il rumore del silenzio”.
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