Sono davanti alla porta di casa dei miei genitori. Non so come ci sono arrivata. L’ultima cosa che ricordo è che ero a casa mia e stavo pranzando. 

Suono il campanello. Niente. Provo un altro paio di volte. Nessuna risposta.

Abbasso la maniglia. La porta si apre.

Pigio l’interruttore della luce ma, per quanto insista, non si accende nessuna lampadina. Per fortuna è pomeriggio e il sole è ancora alto.

«Mamma!» urlo dall’ingresso. «Ci sei?»

Che sia successo qualcosa? Mi affretto per il corridoio che conduce alla zona notte. Nella loro camera non c’è nessuno, e il letto è intatto. Raggiungo la mia vecchia cameretta. Ricordavo che l’avessero smantellata per far posto alla badante di mio padre, ma invece è esattamente com’era quando vivevo da loro. I due letti singoli con le testiere di velluto rosa, i mobili in stile rococò e il lampadario di cristallo a fiori colorati. Tutto come papà aveva desiderato per le sue principessine.

Sento dietro di me un rumore di passi. Mi volto. Mio padre è sulla soglia. 

Ha avuto un emiparesi, non dovrebbe più essere in grado di camminare se non con il bastone, ma invece mi viene incontro senza neanche zoppicare.

«Giulia…» Mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. «Ti trovo bene, sei cresciuta».

Mio padre non mi parla così, anzi, a malapena lo fa. In genere borbotta tra sé come se non esistessi, o al massimo urla.

«Papà?» chiedo esitante. Si comporta in modo strano, cosa vuol dire che sono cresciuta?

Si avvicina ancora e sfiora la mia guancia con la sua. Sa di tabacco e shampoo alla mela verde, il suo preferito. 

«Ti chiedo scusa» mi sussurra. «Non volevo andare, sono stato costretto».

«Papà, di che parli? Dov’è la mamma?»

«Prenditi cura di lei». Il suo tono è lieve. «Sei una brava ragazza». Mi accarezza il viso e piange.

Mi sveglio di soprassalto. Sono seduta sulla poltrona di casa mia con il preventivo per il funerale di mio padre sul grembo. Ho il viso rigato di lacrime. E sento ancora il suo odore addosso.


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