Durante una guardia di notte, feci l’esperienza più terribile e meravigliosa di tutta la mia vita. 

Mi chiamarono in prima serata per una paziente che si era chiusa nel bagno del reparto. Si trattava dell’unità di Psichiatria del piano sotto a quello dove lavoravo io. Non conoscevo il caso, sapevo solo che era giovane, che si chiamava Anna e che soffriva di depressione. 

L’infermiere di turno forzò la serratura, ma quando entrammo era ormai troppo tardi. La paziente giaceva a terra con un sacchetto di plastica avvolto intorno al viso. Era fissato al collo in maniera così salda che ho impiegato diversi minuti per liberarla. Mandai il personale a chiamare l’anestesista e a recuperare il carrello delle urgenze. Mi ritrovai sola nel bagno con la paziente. 

Nel momento in cui le avevo tolto il sacchetto dalla testa, una parte di me aveva già capito che non c’era nulla da fare. Al di là dei parametri vitali, del pallore e della rigidità muscolare, capisci subito se un corpo è ormai un bozzolo vuoto. Ma non mi arresi.

Iniziai a praticarle la rianimazione cardiopolmonare e, tra una respirazione e una compressione toracica, le parlavo. La rimproveravo per aver fatto una cazzata, le intimavo di tornare indietro, la supplicavo di non andarsene, rassicurandola che tutto sarebbe andato per il meglio. 

Arrivò l’anestesista con tutto il suo seguito di macchinari. Io mi feci da parte e osservai la scena fino all’inevitabile epilogo.

Quella notte ero convinta che non avrei chiuso occhio ma, invece, non solo ho dormito ma ho fatto un sogno bellissimo: ero in un giardino e camminavo in coda ad altre persone. Eravamo tutte vestite di bianco e intorno a noi c’era solo luce.

Quando mi svegliai, sentii una brezza fresca soffiarmi sul viso. Pensai di aver lasciato la finestra aperta, ma in realtà era tutto chiuso.  Sono sempre stata una persona razionale, non mi ero mai soffermata prima su concetti come l’Aldilà o il Paradiso. Ma quella notte ho avuto la prova, o almeno per me lo è stata, che l’anima esiste.


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