L’albergo a tema “Retro-Noir” promette un’esperienza immersiva nei suggestivi anni ’40 del ventesimo secolo. La scelta è stata obbligata, essendo l’unica struttura decente in zona. L’alternativa era un rudere sopravvissuto all’ultimo olocausto nucleare, senza check-in robotizzato.
Avanzando verso lo SmartHost, Elena nota che il receptionist indossa un antiquato trench di colore beige, con il bavero alzato. Una sigaretta accesa pende dalle sue labbra.
«Ho una prenotazione» dice lei, porgendogli il braccialetto identificativo.
«Buongiorno, dolcezza. Io sono Bogie». Il biobot l’accoglie da dietro il bancone. Il suo tono è suadente e un po’ aspro. «La stanza sarà pronta tra qualche minuto».
Scorge il minuscolo codice a barre al lato del collo. Senza quello, i biobot sono indistinguibili dalle unità biologiche. Per legge, deve essere ben visibile.
Bogie passa le dita sul suo bracciale elettronico e le carica il token di accesso. «Un piacevole soggiorno, principessa». Nel lasciarle la mano, le rivolge un sorriso ammiccante. Particelle incandescenti cadono dalla brace della sigaretta, come piccole meteore infuocate.
Elena si accomoda su un divanetto della hall quasi deserta. Un ospite solitario sta facendo scorrere lo schermo interattivo della bacheca virtuale con aria annoiata.
Una voce femminile, profonda e roca, accompagna l’apertura delle porte di un ascensore.
«Se hai bisogno di qualcosa, fischia. Sai fischiare, vero Steve?»
Un Kepleriano esce dalla cabina con un’espressione che lei interpreta come irritazione. Difficile a dirsi: le emozioni degli abitanti di Kepler-22b sono difficili da riconoscere, a causa della loro testa piccola e tozza, munita di strette fessure al posto degli occhi e della bocca.Elena si rilassa sul divano e, con le sue tre dita squamose, attiva l’holoband del suo braccialetto. Un cono di luce azzurrina sfarfalla davanti a lei. L’ologramma l’aggiorna sui livelli delle radiazioni terrestri.
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