Mi attardo in veranda dopo aver sistemato i rifiuti nei rispettivi bidoni per la raccolta differenziata. Fa freddo, ma regna un tale silenzio che decido di approfittarne. Così mi rilasso sulla sdraio di vimini e mi guardo attorno. Il cielo è grigio e le nubi si addensano scure all’orizzonte. L’ambiente è saturo di quell’elettricità che precede il temporale, e il prato si colora di un verde più brillante.
Attira la mia attenzione il noce che abbiamo piantato tredici anni fa in occasione della nascita di nostro nipote Jacopo. Quando mia sorella ce lo ha portato era un piccolo germoglio, e adesso è lì che si staglia contro il grigiume dello sfondo con il suo tronco nodoso. I suoi rami scheletrici si protendono verso l’alto a formare una coppa lignea in attesa dell’acqua. Sul lato della corteccia rivolta a nord noto il verde del muschio che ne riveste la base.
«Mi sembra che di acqua tu ne abbia avuta abbastanza» mi trovo a dire, rivolgendomi al noce.
Non risponde. Come potrebbe? È un albero. È immobile, ma io so che sta solo dormendo.
Una gazza ladra si posa su uno dei suoi rami. Non so come, ma mi sembra di percepire l’irritazione del noce. Forse se ne accorge anche il pennuto, perché vola via quasi subito. Sorrido al pensiero.
Adesso ho la folle impressione che l’albero si sia svegliato e, dopo essersi guardato attorno, si sia accorto di me. Mi alzo e vado verso di lui. Non so perché lo faccio, e mi sento anche parecchio stupida mentre mi avvicino. Allungo una mano e l’appoggio sul tronco.
La sua pelle è ruvida e in alcuni punti crepata. Alzo lo sguardo e vedo il busto leggermente inclinato verso di me. Le sue braccia sono alzate al cielo, non per implorare la pioggia ma per rendere omaggio.
Ritiro la mano, e nel farlo abbasso il viso. Noto un piccolo ramo secco incastrato in un lembo di corteccia mezza staccata sul suo fianco. Pensando di fargli un piacere, lo levo e lo lancio lontano. Saluto l’albero con un gesto della mano, mi volto e rientro in casa.
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