Guarda oltre quello che vedi

Andrea è seduto a uno dei tavolini del bar all’aperto, sulla terrazza della Rinascente. Osserva le guglie del Duomo che si stagliano contro lo sfondo rosso del tramonto.

Bere qualcosa in quel locale dopo aver venduto un quadro è ormai diventato un rito. È l’unica occasione in cui si permette di spendere uno sproposito per un aperitivo.

Alla postazione accanto alla sua si è appena seduto un uomo con gli occhiali scuri e il bastone bianco e sottile, ausili distintivi di un non vedente. Gli è caduto il cappello e cerca invano di recuperarlo. Andrea allunga la mano dietro lo schienale, lo raccoglie e glielo porge. In maniera tutt’altro che goffa, l’uomo afferra la tesa del copricapo e lo appoggia sul tavolo.

«Grazie, l’avrei recuperato senza problemi, ma ci avrei messo il doppio del tempo». Lo dice senza alcuna amarezza.

«Di niente» risponde Andrea, e riprende a dedicarsi al suo cocktail.

Il tizio sospira. «Deve essere un gran bel tramonto».

Di solito, fa finta di trafficare con il cellulare per non essere disturbato dagli estranei in vena di fare due chiacchiere, ma con un cieco è più complicato.

«Sì, effettivamente lo è».

«Posso farle una domanda?» chiede l’uomo in tono gentile.

«Certo, mi dica». Sopprime un verso di fastidio e si gira per guardarlo meglio. Ha un aspetto distinto, la barba bianca e i baffi sono ben curati, avrà sui settant’anni.

«Lei dipinge?»

«Sì… come fa a saperlo?»

«L’odore dell’acquaragia, o forse trementina» dice lui toccandosi il naso. «E poi sento l’olio di lino».

«Eh, già» esclama Andrea, ammirato. «È vero che i ciechi hanno gli altri sensi più sviluppati». Si rende conto della gaffe, ma ormai è tardi. L’uomo fa una risatina sommessa. Non sembra essersi offeso.

«Beh, sì, qualcosa del genere. Ma faccio comunque fatica a farmi un’idea. Sono cieco dalla nascita». Nessuna traccia di tristezza nella voce. «Lei è un’artista… Perché non prova a descrivermi cosa vede» continua il vecchio, facendo un ampio movimento con la mano davanti a sé.

Andrea si riassesta sulla sedia, che reagisce protestando.

«Oh, ma io l’ho interrotta» si scusa l’uomo. «Avrà ben altro da fare che dar retta a me».

«No, no, non mi disturba».

Andrea si volta verso il Duomo. Considera per un attimo la possibilità di inventarsi una scusa e andarsene.

«La cattedrale è di marmo… marmo bianco». Il suo tono di voce è incerto. «Il bianco non è un colore, ed è freddo. È assenza». Poi si ferma, si sente uno stupido. Sbuffa dalla frustrazione. «Mi spiace, non sono molto bravo».

«No, no, è perfetto» si affretta a rispondere l’altro. «Prosegua. E il sole? Com’è il sole?»

«Beh, adesso sta tramontando…»

Il rosso, tra i colori a olio, è quello più acre, pungente, vorrebbe saperlo rendere a parole.

«Il rosso è penetrante, è fuoco, calore» continua lui, mentre il cieco annuisce pensieroso. «Credo che possa essere paragonato al peperoncino. Adesso che il sole sta calando, il rosso è meno… piccante». All’uomo scappa una risatina. «Sì, capisco. E gli altri colori? Il giallo, e l’arancione?»

Andrea socchiude le palpebre, e si rilassa. «Sono le foglie in autunno, i colori della terra». Ci riflette un po’. «Se fossero degli strumenti musicali, il rosso sarebbe un violoncello, l’arancio una viola, e forse il giallo un violino. Un suono simile, ma di forza diversa». Riapre gli occhi. L’uomo lo segue con un’espressione attenta, seria. Andrea non ha mai pensato di poter percepire in maniera diversa i colori. Volge lo sguardo in alto, a scrutare la volta celeste sopra di lui.

«Invece, il blu è una sonata per pianoforte. È metallico e freddo, ma non come il bianco. Il blu è ricco, pieno di mistero. Mentre l’azzurro è allegro, il suono cristallino di una campanella». Il cieco annuisce soddisfatto.

«Cosa mi dice invece dei piccioni? Li sento borbottare di continuo».

«L’odore dice già tutto, è pessimo». Carica di disgusto il tono della voce. «Piccoli cuscini con le zampe, puzzolenti e rumorosi».

Il vecchio scoppia a ridere. Andrea accantona il cocktail e si mette a cercare altre cose da descrivergli.


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