I Micoscuri

Ottavio non ascoltava mai i consigli di nessuno. Soprattutto quelli che includevano degli avvertimenti infausti. Non perché fosse coraggioso, affatto; aveva paura anche della sua ombra. Era solo fatalista. Se doveva succedere qualcosa, sarebbe accaduto comunque, pensava lui, qualsiasi cosa avesse fatto per evitarla. Del resto, aveva alle spalle l’esperienza di ben quattordici anni di vita. Tanto valeva incontrare il proprio fato ancora prima che questo ti si abbattesse contro in maniera inaspettata.

Così, quando la nonna lo allertò di non inoltrarsi nel bosco dopo il calar del sole, lui sentì l’irresistibile impulso di contravvenire all’autorità della saggia nonnina, e affrontare il proprio destino. 

Sgattaiolare dalla porta finestra che dava sulla veranda era la cosa più semplice del mondo. La nonna non aveva sistemi di allarme e di rado chiudeva la porta a chiave. In quel piccolo villaggio sperduto sulle Alpi, l’atto criminale più efferato consisteva nell’alterare le indicazioni di un percorso escursionistico o, al massimo, appropriarsi indebitamente – “rubare” sarebbe stata una parola troppo forte – la fantastica torta della signora Amelia, lasciata raffreddare sul davanzale della propria cucina.  

Insomma, per Ottavio, uscire di notte, all’insaputa della nonna, non era un problema. 

Lo aveva fatto più di una volta: per passeggiare lungo i vicoli acciottolati dopo una bella nevicata, così da sentire sotto i piedi lo scricchiolio ovattato della neve quando, appena caduta, ha la consistenza dello zucchero a velo; oppure, per osservare i ricci che escono allo scoperto in primavera, dopo il tramonto, per gozzovigliare con le crocchette del gatto della nonna. 

Ma nel bosco, di notte, da solo, non era mai stato.

Nonostante non facesse ancora molto freddo, si era coperto per bene. Era riuscito a recuperare anche una di quelle lampade frontali che si usano in campeggio, che ti permettono di tenere libere le mani, e fare pipì senza difficoltà. Decise di seguire un sentiero battuto che aveva adocchiato più di una volta durante il giorno, ma che non aveva mai percorso. 

Le nuvole scure, che avevano coperto il cielo fino a pochi attimi prima, si diradarono, permettendo alla luna piena di illuminare il bosco con la sua luce spettrale. 

Spense la torcia, così da vedere meglio le sfumature argentate degli alberi, che facevano sembrare il paesaggio quello di una vecchia fotografia in bianco e nero. 

Il giorno prima aveva piovuto, e l’umidità del sottobosco amplificava l’odore terroso del muschio. Il fruscio degli animali notturni, che si muovevano furtivi, e il bubolare dei gufi, facevano da colonna sonora alla sua nuova avventura. 

Mentre procedeva per il sentiero, notò con la coda dell’occhio una piccola radura alla sua sinistra. Si fermò per dare un’occhiata. La luce sembrava riverberare in quel punto come se ci fosse stata un piccola pozza d’acqua. Uscì dal percorso battuto, e si fece strada tra i cespugli di more selvatiche. Quando raggiunse lo spiazzo d’erba, delimitato dai fusti dei pini, scorse un gruppo di funghi disposti in cerchio. La nonna chiamava quelle formazioni “cerchi delle fate”. Secondo lei si trattava di luoghi magici, dove le fate venivano di notte a danzare. Ma Ottavio sapeva bene che c’era una spiegazione scientifica dietro a quella disposizione singolare. Glielo aveva raccontato una volta papà, durante una delle loro scampagnate a raccogliere funghi: il micelio sotterraneo esaurisce pian piano i nutrienti e si espande dal centro verso l’esterno. Così i funghi cominciano ad emergere lungo il bordo dell’anello per cercare nuovo nutrimento, formando questi caratteristici cerchi.

Si avvicinò per guardare meglio. Di funghi se ne intendeva abbastanza, e di solito quelli che componevano un singolo cerchio erano dello stesso tipo. Quella formazione, invece, era costituita da diverse specie fungine, e alcune non le aveva mai viste prima.

Un fungo si mosse, e oscillò avanti e indietro. 

Doveva esserci un qualche animale lì sotto, pensò Ottavio, un animale molto piccolo che si muoveva nel mezzo. Aspettò per vedere di cosa si trattasse. 

Iniziarono a muoversi anche gli altri, ma i movimenti erano caotici e bizzarri, non potevano avere niente a che fare con gli spostamenti di un animaletto. 

D’un tratto, i cappelli di tutti i funghi del cerchio si sollevarono, tutti quanti contemporaneamente, mostrando le lamelle e il gambo spugnoso al di sotto. Ottavio cadde all’indietro per la sorpresa.

Sotto le loro teste a ombrello, spuntarono bottoni neri, grandi e riflettenti, che puntarono tutti nella sua direzione. Occhi scuri e silenziosi, come possono esserlo quelli dei pesci; pesci molto intelligenti. 

Lo spiazzo occupato dal cerchio emanava una luminescenza perlacea molto intensa, che gli permetteva di vedere con chiarezza le creature fungine che prendevano vita davanti a lui. Rimase a fissarli, senza riuscire a muovere un muscolo.

Dagli steli, sotto i loro cappelli, iniziarono a spuntare delle escrescenze filiformi, che si allungarono intrecciandosi tra di loro. Ottavio percepì dei sottili movimenti sotto lo strato più superficiale dei loro corpi. Forse un qualche liquido scorreva sottopelle, e confluiva nelle propaggini esterne; era come se i funghi fossero tutti collegati in rete. 

Poco dopo, comparvero le spore. All’inizio si trattò solo di un leggero particolato, simile alla polvere nella sua stanza, quando i raggi del sole la inondano; poi prese ad aumentare, arrivando ad assumere le proporzioni di una fitta nevicata.

L’incredulità e la paura gli si erano incagliate in gola, impedendogli di urlare, e quando le spore lo raggiunsero, costringendolo a respirarle, Ottavio rimase del tutto paralizzato. 

Prima di perdere i sensi, sentì un lieve brusio, come di voci sommesse unite in preghiera.

Quando riaprì gli occhi, aveva le stesse dimensioni dei funghi, o erano loro ad avere assunto le sue, Ottavio non ne era sicuro. Quello di cui era certo è che capiva quello che dicevano, o meglio, quello che pensavano. 

Si chiamavano Micoscuri, e non appartenevano alla Terra.

«Ehi! Scusate…» se ne uscì Ottavio in tono incerto. Sapeva che non aveva bisogno di usare la voce, ma comunicare con i pensieri era troppo difficile. Formulare delle frasi comprensibili con la mente in subbuglio, affollata di ogni genere di incubo, era impensabile, letteralmente.

I Micoscuri non sembravano badare a lui. Si muovevano all’interno di una grotta spugnosa, procedendo così lenti che, dandogli solo uno sguardo di sfuggita, avresti pensato che fossero immobili. 

Alcuni mescolavano calderoni dove ribolliva un liquido denso, simile al muco; altri sollevavano e impilavano foglie secche all’interno di una sorta di alveare di fango; altri ancora salmodiavano strani canti seduti in cerchio sui sassi.

«Scusate se vi interrompo» insistette Ottavio, sollevandosi da un giaciglio così morbido da sembrare fatto di mollica di pane. «Io dovrei tornare a casa».

Nessuno reagì. I funghi continuavano a dedicarsi alle loro faccende.

Sospirò e si ispezionò, tastandosi ovunque per vedere se era tutto intero. Non gli mancava nulla, aveva anche la torcia frontale in testa. Cercò di capire in quale parte della foresta si trovava guardandosi attorno, ma non riconobbe nulla.

Una patina semitrasparente ricopriva in alto quel piccolo agglomerato fungino, impedendogli di vedere oltre. Aveva l’aspetto di una membrana iridescente e traslucida, come quella delle ali di una libellula, o di una cicala. Un fitto reticolo di venuzze palpitanti tendeva la struttura membranosa sostenuta da pilastri di legno, che non potevano essere comuni alberi, perché troppo sottili. Ottavio provò a toccarli.

Uno stridio acuto lo costrinse a portarsi le mani alle orecchie. Proveniva dai Micoscuri, che si voltarono all’unisono nella sua direzione, fissandolo.

«Perdonatemi, non volevo…» provò a scusarsi lui, senza sapere bene cosa avesse fatto di sbagliato, «ma qui nessuno mi risponde, e io devo tornare a casa».

Uno di loro si staccò dal gruppo e gli venne incontro, molto lentamente.

«Mi spiace avervi disturbato… davvero». 

Non vuoi stare con noi? Gli disse il fungo nella testa. 

La sua voce era squillante, acuta, e in qualche modo dolorosa. Intanto, avanzava strisciando sulle propaggini alla base del suo gambo, simili a goffi piedi bulbosi.

«Certo… Mi piacerebbe…» balbettò lui. «Ma la nonna si preoccuperà se non mi vede nel mio letto al sorgere del sole». 

Pensavamo volessi stare con noi per sempre.

A sentire la parola “per sempre”, Ottavio si agitò. “Per sempre” era veramente tanto tempo.

«Io… non posso. Sono umano, e voi siete… siete… funghi».

Ogni Micoscuro della colonia smise di adempiere alle proprie attività. Il posto divenne silenzioso in modo innaturale, neanche i suoni della foresta erano più udibili. 

Quello che vedi non è il nostro vero aspetto. Nel nostro mondo siamo molto più simili a voi. 

Ottavio non disse nulla. Iniziò ad avere paura, parecchia paura. Quella che deve provare un animale braccato, quando non ha più via d’uscita, e si prepara a morire. 

Hai paura, continuò il fungo, scandagliando i suoi pensieri. Non devi. Noi siamo esseri pacifici.

«Allora, lasciatemi andare». La voce gli uscì come un lamento. Intanto, il Micoscuro aveva fermato il suo strascicare, e lo studiava con quei suoi lucidi bottoni scuri. Aveva lasciato una scia umida dietro di sé. Gli altri funghi non si erano mossi di un millimetro. Come se stessero tutti in ascolto, attenti.

Rimasero qualche attimo in silenzio, poi lo spazio fu riempito da un vociare indistinto, che aumentò di intensità fino a diventare fastidioso.

Ottavio si portò di nuovo le mani alle orecchie e fece una smorfia di dolore.

Avevamo capito che volessi venire nel nostro mondo, disse il Micoscuro, e il rumore cessò di botto. Alcuni umani si uniscono a noi volentieri, e a volte, dopo un po’ di tempo, tornano indietro.

«Magari un’altra volta… Sai, devo andare a scuola» si giustificò lui, come se le sue fossero delle motivazioni valide. «Non ho neanche finito i compiti delle vacanze».

Il Micoscuro inclinò il suo cappello avanti e indietro, come ad annuire, e le piccole spore iniziarono a fuoriuscire dalle fessure tra le lamelle alla base del copricapo. Come era successo la prima volta, da poche diventarono così tante da non riuscire a vedere più nulla. Ottavio se le ritrovò in bocca e nel naso. Gli sembrò di mangiare e aspirare la forfora. Ma prima che potesse formulare un qualsiasi altro pensiero in merito, perse i sensi.

L’umidità sotto di lui lo svegliò ancora prima che lo facessero i raggi del sole.

Si sollevò dal letto di foglie bagnate e si guardò in giro. Il cerchio delle fate era ancora lì, ma era immobile. Non aveva nulla che lo potesse far sembrare minaccioso. Aveva l’aria di un innocuo circolo di funghi, nient’altro.

Doveva tornare subito a casa, pensò d’un tratto. La nonna si sarebbe svegliata a momenti e lo avrebbe chiamato per la colazione.

Recuperò la torcia frontale, che giaceva al suo fianco, e corse verso casa. Alla luce del giorno, il sentiero aveva perso tutto il suo inquietante mistero, e gli sembrò anche più corto rispetto a quando lo aveva percorso la notte prima.

Gli balenò il sospetto di aver sognato. Magari era così stanco che si era addormentato mentre studiava il cerchio delle fate. Gli sembrò più che plausibile.

Una volta arrivato a casa, rientrò dalla stessa porta a vetri e salì silenzioso nella sua camera. Si levò gli abiti sporchi di terra e bagnati di rugiada, si diede una rapida lavata e si vestì.

«Oh, eccoti» lo accolse la nonna in cucina, mentre riempiva il suo piatto di pancake. 

Ottavio adorava il pancake ma, in quel momento, il profumo che di solito gli faceva salire la saliva in bocca gli sembrò rivoltante. Le narici gli si impregnarono di un odore acido e pungente.

«Hai dormito bene stanotte?» chiese la nonna, mentre gli versava il latte caldo nella tazza con gli Avengers stampati sopra.

Non rispose. Gli venne la nausea, che peggiorò quando si accorse che il latte era rancido. 

«Nonna… Forse il latte è andato a male» disse lui, storcendo la bocca in un moto di disgusto.

«Ma no, tesoro» fece lei. «Forse sei tu che stai poco bene». 

Gli mise una mano sulla fronte, come per sentire se avesse la febbre, e appoggiò l’altra sul tavolo. Aveva una macchia verdastra sul dorso, e dei filamenti bianchi fluttuavano sopra la chiazza, come fili di bambagia mossi da una leggera brezza.

Ottavio sollevò la testa e incrociò lo sguardo della nonna. I suoi occhi erano globi di colore nero, il fondo buio di due pozzi senz’acqua.


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