Il conciabrocche

Fausto aggiunse un po’ di gommalacca alla miscela e si mise a lavorare il composto con una spatolina di sua realizzazione, ricavata da pezzi di cuoio indurito. 

«…Ti ho detto di no». La voce era quella del figlio, Paolo. Il tono era abbastanza alto da sentirsi attraverso la porta che dal suo laboratorio portava al negozio adiacente. 

«Ma fuori c’è scritto che riparate le cose…» Il cliente con cui era alle prese doveva essere un ragazzino. Incuriosito, si alzò dalla sua postazione, socchiuse l’anta e rimase sulla soglia a vedere cosa stava accadendo.

«Questo è un negozio di antiquariato, non aggiustiamo… “cose”. Quella tazza è da buttare». Paolo stava guardando con disgusto i cocci di ceramica sparsi sul bancone, come fossero i resti di un animaletto deceduto per una qualche malattia infettiva. «Costerebbe di più la riparazione, ti assicuro».

«La prego… Posso pagare». Il ragazzo estrasse del denaro da una tasca, e glielo mostrò. 

Paolo fece un passo indietro. «Dì a tuo padre di usare il Super Attak». 

Il piccolo aveva le guance arrossate, e gli occhi lucidi, imploranti.

Fausto si avvicinò al bancone. «Me ne occupo io».

«Papà? Pensavo fossi tornato a casa». Il suo tono era apprensivo. «Il dottore ha detto che non devi affaticarti».

«Oh, io sto benissimo. Questa tazza, invece, ha tutta l’aria di aver bisogno di cure». 

Non era messa bene: il manico era staccato e le parti di ceramica non combaciavano, probabilmente qualche piccolo frammento era andato perso.

«Cure? Mi sa che più che di essere curata, quella tazza avrebbe bisogno di essere rianimata» disse Paolo in tono sprezzante, e soffocò una risatina. «Fa prima a comprarsene un’altra».

Il ragazzino si sciolse come fosse fatto di cera.

«Come ti chiami?» gli chiese Fausto.

Il piccolo si drizzò a mo’ di soldatino. «Mi chiamo Leo, signore»

«Ci tieni molto?» 

«Sì, tanto. Me l’ha regalata la nonna». 

Fausto si aggiustò gli occhiali sul naso senza commentare, e studiò lo scempio che aveva davanti. 

«Anche se l’aggiusto, potrebbe non tenere più i liquidi». 

«Va bene lo stesso, la voglio tenere di ricordo».

«Ma papà, dai! È tutta fatica sprecata». 

Fausto sollevò una mano per decretare la fine della discussione con il figlio. Raccolse i pezzi di ceramica e si girò per tornare in laboratorio.

«Vieni con me, ragazzino». 

«Grazie, signore» si affrettò a dire Leo, e lo seguì.

Fausto mugugnò qualcosa e si sedette subito al suo trespolo di pelle logora, davanti al tavolo da lavoro, poi appoggiò quel che rimaneva della tazza e cominciò a estrarre dalla cassetta gli attrezzi che gli sarebbero serviti. 

«Adesso applichiamo alle crepe questo mastice di calce e albume». 

«Albume?» domandò Leo che gli si era seduto accanto.

«Certo, è più economico della polvere di marmo» borbottò lui. «Ora vediamo cosa si può fare».

Ci volle quasi un’ora per ricomporre la tazza. Alla fine del lavoro, usò delle fasce elastiche per tenere tutto assieme in attesa che il collante facesse presa. 

«Non potevi chiedere al tuo papà, di aggiustarla?»

«Io non ce l’ho il papà». Lo disse come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non aggiunse altro.

«Dovrai tornare domani. Ci vogliono almeno ventiquattrore per essere sicuri che tenga». 

Leo fece sì con la testa. «È il tuo lavoro?»

«Lo era. Facevo il conciabrocche». Gli scappò un sorriso a risentire quel termine ormai desueto. 

«Che nome buffo» commentò il ragazzo, mentre studiava curioso gli strumenti da lavoro. «Non lo fai più il concia… brocche?»

«No» rispose lui, e le sue labbra si tirarono in un sorriso amaro, «ma, quando avevo poco più dei tuoi anni, io e mio padre ci spostavamo di quartiere in quartiere riparando vasi, pentole e oggetti di ceramica».

«Doveva essere divertente». Leo appoggiò i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani, e si mise a contemplare la sua tazza in via di guarigione.

«Le donne ci venivano incontro con i loro piatti rotti, e noi li aggiustavamo. A volte, ci offrivano da mangiare». 

Era tanto che non ci pensava. Ai tempi, era convinto che un giorno avrebbe continuato l’attività del padre.  

«Sei come un dottore». 

Fausto rise e si appoggiò allo schienale dello sgabello, poi chiuse gli occhi. Gli sembrò quasi di sentire il tintinnio dei cocci di porcellana rotta, appesi alla gerla del padre, mentre camminava al suo fianco.


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