Come previsto, la casa è deserta. Alex ha avuto la soffiata dalla sua ragazza, che conosceva la tipa che si faceva il giardiniere, e al giardiniere glielo aveva spifferato la donna delle pulizie. Insomma, uno di quei passaparola che, al contrario del “telefono senza fili”, non portava a un’informazione distorta, o almeno così sperava.
«Con questo passamontagna non vedo un cazzo» borbotto alle spalle di Alex, «e non riesco neanche a respirare».
«Stai zitto» sibila lui. «Mi sto concentrando».
Alex ha lavorato per qualche mese in una ditta di sistemi di allarme e crede di saperne abbastanza da mettere fuori uso quel “pezzo di antiquariato”.
La casa è una villetta circondata da alberi, niente cani, la maggior parte dei vicini è andata via per il fine settimana; l’unica rimasta è una vecchia gattara che non si accorgerebbe neanche se delle meteore piovessero sul suo guardino.
«Ecco fatto». Nonostante lo dica bisbigliando, riesco a percepire la boria nel suo tono di voce. «Te l’avevo detto, o no, che sarebbe stato un gioco da ragazzi?»
«Sì, si, sei un genio. Ora muoviamoci».
Entriamo. Abbiamo i guanti e delle torce frontali fissate in testa con una fascia elastica, di quelle che si usano in campeggio per andare fuori a pisciare quando è buio pesto. Volendo potremmo non usarle e accendere le luci, tanto tutte le tapparelle sono abbassate, ma tant’è.
Prendiamo i gioielli, del contante e un Rolex che da solo vale quanto la villa.
Un rumore dal piano di sotto mi fa rizzare i peli dietro la nuca. Mi fermo e rimango in ascolto. Intercetto lo sguardo di Alex dall’altra parte della camera. Anche lui è immobile. Il silenzio è rotto solo dal ticchettio di un vecchio orologio analogico appeso in corridoio. Non faccio a tempo a rilassarmi che lo sento di nuovo, stavolta più forte. Un suono metallico, come di catene, poi un tonfo.
Faccio segno ad Alex che è il momento di andarcene. Mettiamo tutta la refurtiva negli zaini e ci avviciniamo alla scale. Stiamo per scendere quando uno spiffero di aria fredda mi raggiunge da dietro. Mi volto e noto un’apertura nella parete. Sono sicuro che prima non ci fosse. Una specie di passaggio segreto, una porticina mezza coperta da un arazzo. Se ne accorge anche Alex.
«Andiamocene» gli sussurro, spalancando gli occhi allarmato.
Mi rivolge una di quelle occhiate furbe che precedono di solito una catastrofe, o almeno una di quelle cazzate che poi dovrà risolvere il sottoscritto. Non faccio in tempo a prenderlo per la manica della felpa che lui è già entrato, sparendo nell’oscurità. Per un attimo penso di andarmene e lasciarlo lì. Alla fine, abbiamo metà bottino ciascuno.
Sospiro, e lo seguo.
Il passaggio si apre su una scala a chiocciola che scende di sotto. Nel seminterrato c’è solo una porta di metallo con accanto un tastierino numerico, ed è socchiusa.
Ho un brutto presentimento.
Quell’idiota di Alex non ci pensa due volte ed entra. Rimango fuori, incerto se mollarlo lì e andarmene.
Sospiro, di nuovo, e lo seguo.
Una luce automatica si accende quando siamo nella stanza. Sembra una specie di laboratorio. Di lato c’è un tavolo pieno di attrezzi: un set di bisturi e coltelli, pinze, siringhe, alcol e diversi contenitori con dentro del liquido denso. Ci sono anche occhiali protettivi, un grembiule di pelle e una scatola di guanti in lattice, di quelli usa e getta. L’illuminazione è fioca e tende al rosso, simile a quella delle camere oscure. Alex mi strattona attirando la mia attenzione.
Contro la parete davanti a noi c’è una gabbia di metallo, e dentro ci sono due persone.
«Cazzo!» esclamo senza preoccuparmi del tono alto della voce, e indietreggio.
Un uomo e una donna sono ammanettati alle sbarre della cella. Indossano solo biancheria intima macchiata di sangue raffermo e sudiciume. Sembrano drogati.
Noto una lucina rossa in un angolo del soffitto che si accende. È un sensore di presenza. Un clangore metallico ci avvisa che la porta dietro di noi si è chiusa.
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