Ho sempre desiderato fare il medico, fin da piccola. Mentre gli altri bambini sognavano di fare l’attrice, il poliziotto, o l’astronauta, io avevo un solo desiderio: scoprire come funzionasse il corpo umano e come fosse fatto dentro. Ma la relazione medico-paziente non mi ha mai attratta, come qualsiasi altro tipo di legame, a dir la verità. Una volta laureata in medicina, mi sono specializzata in anatomia patologica, la formazione clinica che richiedeva la minor interazione umana possibile. Ora sono assunta all’Istituto di Anatomia Patologica di Milano. Purtroppo, solo una parte del mio lavoro si svolge in una sala autoptica. Per il resto del tempo mi tocca avere a che fare con i colleghi, rendere conto al Primario, e svolgere tutta una serie di altre attività che prevedono un minimo di contatto interpersonale. Con gli anni ho imparato a riconoscere la maggior parte delle espressioni del viso e a interpretare il linguaggio del corpo. Adesso, me la so cavare piuttosto bene con le persone, se si tratta di interazioni brevi e superficiali.
«Brigida, sei sicura?» La mia collega, Paola, ha già indossato il cappotto. «Posso tardare se hai bisogno».
«Ma figurati» esclamo, liquidando la faccenda con un gesto della mano. «Il mio ragazzo lavora fino a tardi. La cena è saltata, ormai». Simulo un’espressione delusa e l’accompagno con un’alzatina di spalle.
«Mi spiace» insiste lei. «È venerdì sera…»
«Si tratta comunque di un caso veloce» dico io, e le faccio notare lo spessore sottile della cartella del paziente, come a rassicurarla dello scarso impegno lavorativo che mi aspetta. «Non ci metterò più di un’ora» le dico in tono accomodante, e le rivolgo il più affabile sorriso del mio repertorio.
«Sei la migliore, davvero». Paola fa per uscire ma, all’ultimo, si volta. Allunga la testa attraverso lo spiraglio della porta socchiusa.
«Noi due dobbiamo fare quell’aperitivo, ricordi? Offro io». Mi fa l’occhiolino ed esce.
Sospiro, prendo la documentazione del paziente e vado nella sala delle autopsie.
Ovviamente non c’è nessuna cena, così come non esiste nessun ragazzo, e per quell’aperitivo dovrò inventare l’ennesima scusa.
Rivolgo tutta la mia attenzione al giovane uomo disteso sul tavolo autoptico. Leggo sulla cartella: arresto cardiaco. Probabilmente si tratta di una qualche malformazione congenita, non si spiegherebbe altrimenti una morte così prematura.
Metto i guanti e prendo il bisturi. Sto per incidere, ma poi mi blocco.
Noto che ha i lineamenti marcati, ma gradevoli. I segni di ipostasi sono evidenti nella zona lombare e sui glutei. La luce alogena di solito è impietosa nell’evidenziare ogni più piccolo difetto della pelle, mettendo in risalto le discromie post-mortem, ma non sembra invece intaccare la sua bellezza.
Mi viene l’improvviso desiderio di toccarlo. Esito qualche istante, poi mi levo il guanto sinistro e avvicino la mano. Con le dita sfioro la pelle lungo il tronco, e proseguo fino al viso. Le labbra sono bluastre e leggermente retratte per la disidratazione. Mi chino su di lui, come spinta da un richiamo, una voce che si fa strada strisciando dentro di me, una creatura palustre che affiora alla superfice, emergendo dal fango. Sento una fitta alla testa e chiudo gli occhi.
Le immagini scorrono rapide nel buio di fronte a me: io, da bambina, che piango nella mia camera e papà che si affaccia alla porta prima di andarsene, con il rimorso che trabocca dai suoi occhi; la mamma che mi tiene per mano davanti alla bara scoperta; io che vengo sollevata per dare un ultimo bacio a mio padre, vestito con l’abito della festa; e io che urlo, e che mi dimeno come un’ossessa.
Apro gli occhi di scatto e mi guardo intorno. Il mio respiro è così rapido che lo sento sibilare, sempre più affannoso. Ricaccio indietro quella voce da dovunque sia venuta.
Ho il bisturi in mano e lo sto puntando alla gola dell’uomo. Mi ritraggo, spaventata.
Mi accorgo di avergli procurato un’incisione appena sotto il mento. Non può più sanguinare. Grazie a Dio, è già morto.
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