La mattina è la parte più triste della giornata. È il momento del risveglio, e i raggi del sole sono così pressanti che sono costretta ad aprire gli occhi, come se qualcuno bussasse alla porta con insistenza. Di notte faccio un sogno ricorrente: sono immersa nella luce, non ho corpo e fluttuo in aria come una nuvoletta. Sto bene.
Mi sollevo e mi metto seduta sul letto. Ed ecco che inizio a sentire il peso delle cose: il peso dell’aria stagnante della camera, quello del calore che batte contro le persiane, dei pensieri che si addensano nella testa per poi insinuarsi in gola, fino a raggiungere il petto, bloccandomi il respiro.
Inspiro ed espiro, soffiando fuori l’aria con forza. Ancora, di nuovo.
«Così va meglio?»
Sobbalzo. Mi giro di scatto. Non so perché, ma mi dimentico sempre di lei.
«Sei ancora qui?» È una domanda stupida, lo so. Ormai dovrei esserci abituata.
«Certo, dove vuoi che vada? Guardati, sei un disastro».
Da un po’ di tempo vedo mia nonna. E ci parlo, anche.
Ha sempre vissuto con noi da quando sono nata. È morta qualche anno fa. Non ricordo quando ha iniziato a farmi visita, ho l’impressione che non se ne sia mai andata.
«Non puoi fare niente per me» le dico in tono di rimprovero.
Mi alzo e inizio a vestirmi.
«Beh, tanto per cominciare parliamo molto noi due» e assume un’espressione corrucciata.
Indossa l’abito della domenica: quello rosso con la scollatura a barchetta, e al collo porta il suo filo di perle. Credevo che i fantasmi fossero tutti evanescenti, o vestiti di bianco; invece, la sua immagine è così vivida che a volte riesco perfino a toccarla.
«Già, almeno qualcuno in questa casa mi presta attenzione». Sospiro e mi guardo attorno. Mia madre non pulisce la stanza da secoli. C’è talmente tanta polvere sospesa da sembrare una tempesta di neve che si abbatte sul pavimento.
Cerco il mio zaino. Lo trovo accanto alla libreria. È parecchio consumato, dovrò chiedere a papà di comprarmene uno nuovo. Nel raccoglierlo mi accorgo che è già pieno.
«Vieni giù?» chiedo, voltandomi verso di lei prima di uscire.
«Sai benissimo che non posso fare altrimenti. Sono legata a te». Mi rivolge uno sguardo triste, ma io so che non le pesa affatto starmi accanto, è solo dispiaciuta per la mia situazione. Dice sempre che non se ne andrà finché non avrà portato a termine il compito per cui si trova qui. Ma non mi ha ancora spiegato la natura di questo suo incarico.
Passo davanti alla camera dei miei, il letto è sfatto. La mamma non è rimasta a dormire fino a tardi stavolta, e il debole clangore proveniente dalla cucina suona nella mia testa come il rintocco delle campane in un giorno di festa.
Magari ha ripreso a fare colazione, e a preparare anche la mia.
Quando la trovo immobile davanti al lavabo, tutte le mie aspettative crollano.
È ferma davanti alla finestra che dà sul vialetto. I suoi occhi scrutano febbrili oltre il vetro, come in attesa dell’arrivo di qualcuno.
Delle pentole sono accatastate sul piano cottura e le ante dei pensili sono aperte, una fila di bocche spalancate sul punto di esporre le loro rimostranze. Pure lo sportello del frigo è dischiuso, e la lucina all’interno sfarfalla in stato di allarme.
Appoggio lo zaino contro la penisola e mi dirigo al frigorifero. Lo chiudo e il leggero tonfo fa trasalire mia madre che guarda spaventata nella mia direzione.
«Scusa, non volevo spaventarti». I suoi occhi scandagliano lo spazio di fronte come se fosse vuoto, e non risponde. Si volta di nuovo verso la finestra. Ha le mani a mollo nell’acqua.
Oddio, non un’altra volta, ti prego!
Il mio battito accelera e quasi inciampo per la fretta di guardare dentro. Ma c’è solo acqua, acqua limpida e trasparente.
«Non lo farebbe una seconda volta. Stai tranquilla» interviene la nonna.
«Ci scommetteresti?» sussurro senza girarmi. La tensione è diventata liquida e ora mi offusca la vista. Sotto la superfice dell’acqua, le cicatrici verticali ai polsi sono deformate, appaiono più profonde di quello che sono in realtà. Sembrano righelli sghembi, testimoni della misura delle sue pregresse intenzioni.
Quando l’ho trovata nella vasca da bagno non ho realizzato subito, sono rimasta immobile a fissarla. Sembrava addormentata. Aveva gli angoli della bocca sollevati. Era da tanto tempo che non la vedevo sorridere. Invece di soccorrerla o chiamare aiuto sono rimasta lì, incantata. In contrasto con il rosso dell’acqua, la sua pelle era del colore delle perle della nonna. Per fortuna, è arrivato subito papà che le ha avvolto degli asciugamani intorno alle braccia e ha chiamato i soccorsi.
«Mamma?» bisbiglio senza toccarla. Ho paura di spaventarla ancora. Lei ritorna da chissà dove, si guarda in giro, disorientata. Il viso è inespressivo. La sua attenzione viene subito richiamata dall’acqua che scorre, chiude il rubinetto e si mette ad apparecchiare per la colazione. Sospiro e mi siedo al solito posto.
«Secondo me sta meglio» dice la nonna, sedendosi accanto a me.
«Solo perché non cerca di ammazzarsi non vuol dire che stia meglio». Non volevo alzare la voce, né uscirmene con parole così dure. Guardo la mamma, che non mostra nessuna reazione. Sta affettando il pane, sorda al mondo che la circonda. Mi chiedo se sia sensato lasciarle oggetti taglienti a portata di mano. Ne parlerò con papà.
«Non vedi?» La indico con entrambe le mani, stavolta sussurrando. «Continua ad ignorarmi».
«Ma sta preparando la colazione» mi fa presente la nonna.
«Tanto non ho fame». Sbuffo e incrocio le braccia al petto.
Parte una suoneria. La mamma si interrompe e recupera il cellulare appoggiato accanto a lei.
Inizia a parlare con qualcuno, è di certo papà. Lo capisco dalle sue risposte: “Tutto bene”, “Mi sento meglio”, “Non ti preoccupare”. Mi chiedo se lui sappia che non è così. Mi viene voglia di strapparglielo dalla mano e urlargli: “Non è vero. Sta mentendo!”, ma non lo faccio. Come minimo mi rimprovererebbe. Dovrei essere già a scuola a quest’ora.
Mi alzo e vado in soggiorno. Non ho voglia di andare a lezione, anche se ne ho saltate un sacco. Preferisco rimanere a vegliare su di lei. Lei non se ne accorge, ma io le rimbocco la coperta quando si addormenta sul divano, o le accarezzo il volto quando è seduta in veranda a contemplare il vialetto d’ingresso.
Nel salotto noto un album aperto sul tavolo. Mi avvicino, pensando siano foto di famiglia, ma invece sono ritagli di giornale. Il titolo di uno degli articoli annuncia: “Studentessa sparisce nel tragitto verso la scuola, ritrovata senza vita”. Un altro trafiletto riporta: “Liceale esce di casa e non fa più ritorno. Comunità sotto shock”. Alcuni sono incollati alle pagine del raccoglitore, altri sono sparsi sul tavolo. Ci sono un sacco di fotografie. Ne raccolgo qualcuna: io con la palla sotto il braccio quando giocavo a pallavolo; da piccola che faccio i primi passi; e ce n’è una con mamma e papà, siamo felici. All’improvviso sento le mani della nonna che mi cingono le spalle da dietro. Mi volto.
«Non pensi che sia ora?» dice la nonna con la sua voce morbida.
Io non rispondo. Mi sento strana, come quando tutti sbucano fuori urlando: “Sorpresa!” e tu, invece di essere contenta, ti spaventi a morte, come se invece di una festa si trattasse di un’imboscata.
«Io non voglio andare». All’improvviso ho paura. «Non posso lasciarla così…» Mi divincolo dall’abbraccio e corro in cucina. La mamma è inginocchiata sul pavimento. Ha visto lo zaino. Lo sta guardando con aria confusa. Inaspettatamente lo abbraccia e si mette a piangere. Il mio cuore vacilla, e cade a terra andando in frantumi. Mi abbasso per consolarla. Lei solleva lo sguardo e sorride. So che non può vedermi, ma sa che sono lì. «Adesso puoi andare, tesoro» mormora tra i singhiozzi. «Ti prometto che starò meglio».
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