Non ricordavo che la crepa sul muro della cucina fosse così profonda.
La porta di solito rimane aperta, accostata alla parete, e ne occulta la vista.
L’ho chiusa per evitare di svegliare mia madre. La macchina del caffè fa sempre un gran casino quando la faccio partire. E mia madre, nonostante l’età, ha un udito fine.
Non riesco a fare a meno di fissare la crepa. Ha un brutto aspetto: l’intonaco si è sollevato in più punti e il bianco del muro si è tinto di giallo sporco. Magari è una mia impressione, ma quel sottile reticolo di rughe tutt’attorno prima non c’era. Uno dei bordi è sollevato e lascia intravedere una macchia scura, forse di umidità, o magari si tratta di residui di sporcizia accumulati nel tempo. Mi ricorda il nero sotto le unghie.
Distolgo lo sguardo.
Il caffè è ancora caldo. Circondo la tazza con le mani e ne bevo un sorso. Chiudo gli occhi e mi crogiolo in quel calore, così anche il freddo della stanza si attenua un po’.
Il riscaldamento è regolato al livello più basso. Mia madre tiene sempre i caloriferi al minimo. Dice che, non essendoci più papà a occuparsi delle spese, dobbiamo stare attente e risparmiare. Ovviamente dà per scontato che non mi sposerò mai. “Nubile attempata”, mi chiama, accompagnando sempre quell’epiteto con un mezzo sorriso. Probabilmente sospetta che io sia ancora vergine, ma non le darò mai la soddisfazione di confessarglielo.
Imburro una fetta biscottata e ci passo sopra un velo di marmellata.
Sollevo la testa, e il mio sguardo ritorna su quella crepa nel muro.
Mi innervosisco.
Potrei spostarmi dall’altra parte del tavolo, così da non avere la parete di fronte, ma sarei troppo vicina al vetro della porta finestra. Gli infissi non sono perfettamente allineati, e gli spifferi di freddo mi trafiggerebbero la schiena come delle stilettate.
Inspiro a fondo, strizzo gli occhi per evitare di guardarla. Ma anche così l’immagine si insinua sotto le palpebre e vi rimane impressa, come un sogno vivido dal quale non riesco a svegliarmi.
Riprendo a bere il caffè, ma il suo calore si è arreso, e anche lui ha ceduto lo spazio al freddo della stanza.
Alzo lo sguardo, ed è come se quello squarcio nella parete mi chiamasse, monopolizzando la mia attenzione. Con i suoi spigoli appuntiti e i lembi frastagliati, si inserisce attraverso le cavità oculari come un punteruolo, aprendo con prepotenza una breccia nella mia memoria. Poi si mette a rovistare con perizia, come uno zelante impiegato statale alla ricerca di una pratica andata persa.
Una volta, da bambina, caddi dalla bicicletta e mi ferii un ginocchio. Perdevo molto sangue, e mi convinsi che sarei morta. Mia madre si precipitò in mio soccorso, diede un’occhiata alla ferita, poi fece uno schiocco con le labbra, mi rivolse un’espressione di sospetto misto a disapprovazione, e se ne andò. Ci mise settimane a guarire. Se facevo dei movimenti troppo bruschi la crosta si crepava e riprendeva a sanguinare.
Lo sfregio sul muro ha un aspetto molto simile. Solo che non perde sangue.
I passi strascicati di mia madre anticipano il suo arrivo. La porta si apre, coprendo la parete, e con lei anche la sua ferita.
«Sara, cosa stai facendo? Perché hai chiuso la porta?» chiede lei in tono seccato.
«Non volevo disturbarti».
Rimane ferma sulla soglia, con la mano grinzosa appoggiata alla maniglia. Il suo sguardo severo, appena svelato dalle palpebre cadenti, e il naso adunco, la fanno sembrare un rapace appollaiato su un ramo, che perlustra implacabile l’ambiente.
Mugugna qualcosa e richiude la porta.
Piccoli frammenti di intonaco si staccano e cadono sul pavimento ai piedi del muro crepato, senza fare rumore.
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