Elisa sapeva che nello sgabuzzino non si nascondevano mostri, era stata chiusa lì dentro più volte in punizione e non ne aveva mai incontrati. Era anche sicura che non ce ne fossero nell’armadio, aveva controllato. Il suo amico Marco continuava a metterla in guardia da quelli che strisciavano sotto il letto. Lui, di notte, al buio, sotto le coperte, li aveva sentiti raschiare il pavimento.

Ma Elisa non gli credeva. Il vero mostro lei lo aveva in casa. Dormiva con la mamma, si alzava al mattino, andava a lavorare e tornava la sera per cena. Il sabato e la domenica si chiudeva nel suo studio e lei si guardava bene dall’avvicinarsi. Lui a volte usciva all’improvviso, barcollava, e l’alito era cattivo, come se avesse mangiato qualcosa di dolciastro ma puzzolente. In quelle occasioni era più difficile che l’acciuffasse, i suoi riflessi erano più lenti, ma se riusciva ad acchiapparla, erano guai.

Quel giorno era tornato dal lavoro prima del solito e aveva iniziato a litigare con la mamma. Capitava spesso, ma quella volta, oltre a urlare, se la prendeva anche con la casa. Elisa era nascosta sotto il letto e lo sentiva. Ogni volta che rompeva qualcosa lei chiudeva d’istinto gli occhi e pregava che tutto finisse al più presto.

«Elisa! Dove cazzo sei?» Il mostro aveva iniziato a cercarla.

Sentì i suoi passi pesanti e strascicati. Entrava nelle stanze, urlava, e sbatteva le porte quando usciva.

«Roby, ti prego, è solo una bambina» lo implorava la mamma.

«Non è più una bambina, ha otto anni ormai». Se un lupo avesse potuto parlare avrebbe avuto proprio quella voce, con la sua grossa lingua che incespicava contro i denti appuntiti.

«Ha lasciato tutti i giocattoli in giro».

«Ma, Rob—»

«Basta!» urlò il mostro. «Deve assumersi le sue responsabilità».

Elisa sentì dei rumori nel corridoio, come di lotta, un tonfo, e poi singhiozzi.

«Elisa!» Stavolta il mostro gridò più forte.

Si annotò nella mente di mettere via i giocattoli subito dopo aver finito di giocarci, senza aspettare. Intanto i passi si facevano sempre più vicini. Quando entrò nella sua camera, Elisa iniziò a tremare così tanto che le battevano i denti. Allora si premette una mano sulla bocca per non farsi sentire.

Elisa vedeva i piedi del mostro da sotto il letto. Non si era neanche tolto le scarpe, tanto era arrabbiato. Le faceva male la pancia e aveva le mani sudate. In quel momento avrebbe voluto essere Tobia, il suo orsacchiotto, ma anche un sasso sarebbe andato bene. Un sasso non prova dolore, non sente nulla.

Il mostro si fermò al lato del letto, e rimase immobile, senza dire nulla. Elisa sentiva solo la mamma che piangeva in corridoio. Poi, lui si abbassò, agganciò la rete con una mano e la sollevò, con tutto il materasso. Elisa non fece in tempo a scappare che lui le afferrò una caviglia e la trascinò fuori.

«Ti nascondi come fanno i ratti?» Si era inginocchiato, e la studiava con gli occhi socchiusi, come se stesse decidendo cosa farne. Il suo viso era scuro di rabbia.

A Elisa iniziò a mancare il respiro, non aveva più il letto sopra di sé, ma si sentì come se le fosse caduto addosso. Una fitta alla pancia, e poi il liquido caldo iniziò a sgorgarle tra le gambe, macchiandole i pantaloni e bagnando per terra.

«Ma che cazzo!» Il mostro mollò la presa, si alzò in piedi di scatto e si portò una mano al viso per tapparsi il naso. «Che schifo che fai. Ti sei pisciata addosso».

Elisa approfittò della sua esitazione per alzarsi e correre via. Superò la mamma, seduta a terra con la testa tra le mani, e raggiunse la porta. Il mostro aveva dimenticato di chiuderla. Mentre quello le gridava dietro cose terribili, lei uscì di casa e corse a perdifiato, il più lontano possibile dalle sue grinfie. Mentre correva si asciugava le lacrime, non si era nemmeno accorta di piangere. Sapeva che sarebbe dovuta tornare, non poteva lasciare la mamma da sola con quel mostro. Doveva trovare un modo per evitare che divorasse anche lei, così come aveva fatto con papà.


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