Il giorno in cui sei stata costretta a lasciarmi è rimasto impresso nella mia memoria nonostante avessi solo dieci anni. La data precisa l’ho smarrita tra un calendario e l’altro. Papà non faceva nulla per tener vivo il tuo ricordo, per anni ho pensato che non ti avesse voluta bene come te ne ho voluto io, ma adesso so che non è così.
Quell’anno, l’inverno era stato particolarmente rigido e aveva infierito sul nostro giardino portandosi via il gelsomino, quello che ti piaceva tanto. Dicevi sempre che di sera il suo profumo diventava dolce e sensuale. A quel tempo, non conoscevo bene il significato di quella parola, l’associavo a qualcosa di esotico e lontano. Qualche mese fa ne ho fatto piantare un altro, vicino al cancelletto dell’ingresso.
Ora comprendo cosa volessi dire. Quando la sera ci passo accanto, tornando dal lavoro, sento il suo dolce respiro, e allora mi ricordo di te.
Sapevo che non stavi bene e che prendevi delle medicine, ma quando chiedevo a papà cosa avessi di preciso, liquidava la faccenda dicendo che eri anziana, faceva spallucce e la questione finiva lì. Come se dopo una certa età essere malati fosse qualcosa di consueto, come avere i brufoli quando si è giovani. Ma io ricordavo il tuo passo deciso al mercato, carica di sacchetti più pesanti di me; il tuo sorriso festoso, quando andavi a messa la domenica, con il tuo abito rosso e il filo di perle che ti aveva regalato il nonno; e com’eri agile quando stendevi il bucato! Poi, un giorno, tornando da scuola, mi dissero che eri stata male e ti avevano portata in ospedale. Io non ci volevo credere, avevo anche pensato che ti fossi stancata di noi e te ne fossi andata. Ho fatto tante di quelle storie che alla fine papà mi ha accompagnata a farti visita.
Il tanfo di quella stanza me lo ricordo ancora: odore di medicine e disinfettante. Per poco non mi venne su la colazione. Ma non dissi nulla, temevo che papà mi avrebbe riportata a casa.
Quando ti ho vista stesa nel letto, con le braccia avvolte da tubicini, come fossero rampicanti di plastica, mi sono sentita così triste da pensare che lo stomaco si fosse riempito di sassi e sabbia, e che sarei caduta a terra per il troppo peso.
Mi sono avvicinata e ti ho preso la mano, stando attenta a non farti male. Sembravi fatta di carta velina e le vene risaltavano sulla pelle pallida e tirata. Ricordo di aver pensato che stessi diventando trasparente, e prima o poi ti saresti dissolta.
Avevi gli occhi chiusi, ma la bocca era socchiusa, come se stessi per dire qualcosa. Ti ho sussurrato all’orecchio più volte: “Nonna, nonna, devi tornare”, ma tu non rispondevi. Ho iniziato a piangere. È arrivato papà, e mi ha trascinata via. Sulla strada del ritorno ripeteva che non era un posto per bambini, quello, e aveva fatto male a portarmi lì. Sapevo che non era arrabbiato con me, ma con la tua malattia. Gli sono sempre stata grata di avermi permesso di stare con te un’ultima volta, anche se preferisco ricordarti come eri prima. Ancora adesso mi sembra di vederti, attraversare il giardino con la spesa, o imbracciare l’annaffiatoio, intenta a bagnare le rose, le begonie, e anche i crisantemi.
Moristi quello stesso pomeriggio. Ricordo che stavo guardando la TV e papà mi si sedette accanto. Mi disse che te ne eri andata, così come avrebbe potuto dirmi che eri partita per un lungo viaggio. È sempre stato un uomo di poche parole, mio padre. Non si è mai preoccupato di celebrare ogni anno il giorno della tua scomparsa, ma non perché lo avesse dimenticato, credo che volesse tenerlo per sé, o almeno è così che mi piace pensare.
Quella sera, quando andai a dormire, e tutte le luci furono spente, rimasi a fissare il buio. Immaginavo che tu fossi ancora lì a rimboccarmi le coperte e a darmi il bacio della buonanotte. D’un tratto sentii il materasso abbassarsi accanto a me, come se qualcuno ci si fosse seduto. Rimasi in attesa, con gli occhi tesi a scandagliare le ombre della stanza. Non avevo paura, anzi, fremevo di impazienza.
E poi, il profumo di gelsomino.
Lascia un commento