«Buongiorno, Marco».
Il ragazzo non risponde. La testa incassata nelle spalle e l’aria imbronciata con gli occhi rivolti a terra.
Raffaele si siede e appoggia il dossier sulla scrivania.
Il commissario Carbone ha pensato bene di assegnare a lui l’interrogatorio solo perché ha un figlio più o meno della stessa età di Marco. Come se avere dei figli adolescenti ti desse un qualche tipo di abilità soprannaturale a comunicarci, pensa Raffaele. Che idea! A malapena ci parla con suo figlio. Andrea passa ore davanti al computer, e quando gli si chiede qualcosa, invece di rispondere, grugnisce.
«Sono l’ispettore Raffaele Zanardi, vorrei solo farti qualche domanda in merito a quanto successo ieri sera al parco».
Marco mantiene lo sguardo basso, si torce le dita delle mani e muove una gamba, tamburellando con un piede il pavimento.
«Non ho fatto niente» dice all’improvviso.
«Nessuno dice che tu abbia fatto qualcosa. Solo non ci sono chiare le dinamiche dell’aggressione e vorremmo capire bene come è andata, tu eri lì e—»
«Io passavo per caso, non ho fatto niente» ribadisce Marco, interrompendolo. Poi torna a fissare il pavimento, e ad accanirsi con il piede sul linoleum.
Raffaele si trattiene dal sospirare, estrae alcune foto dal plico di documenti e gliene mostra una, facendogliela scivolare davanti.
«Questi sono i tuoi amici, Andrea e Alex, giusto?» Indica con un dito i due ragazzi.
«Non faccio la spia, io» sbotta lui.
«Non ce n’è bisogno. Sappiamo per certo che si tratta di loro. E questo sei tu». La qualità dell’immagine è discutibile, l’ha scattata un passante con il cellulare, ma si vedono chiaramente i volti di Andrea, Alex, e anche quello di Marco.
Il ragazzo si alza di scatto facendo cadere la sedia.
«Pensa che io sia stupido?» urla, e chiude la mani a pugno. «Prima mi dice che dovete solo capire le dinamiche e poi…» Si lascia scappare un gemito di frustrazione e prende a calci la sedia, che finisce contro la parete sfregiando l’intonaco. «E poi… mi … mi mostra quella cazzo di foto». Le parole gli escono a scatti, ostacolate dalla rabbia che gli contrae la bocca, distorcendola.
Allertato dal rumore, il collega si affaccia alla finestrella di vetro della porta. Gli fa un cenno con il mento, come a chiedere se ha bisogno di aiuto. Raffaele scuote appena la testa e distoglie lo sguardo.
«Marco, adesso è meglio se ti siedi».
Il ragazzo fa qualche passo avanti e indietro. Si ferma, chiude gli occhi e rimane così per qualche secondo. Poi raccoglie la sedia con un gesto brusco e ci si siede, incrociando le braccia al petto.
«Va bene, Marco, niente giochetti». Raffaele gli mette davanti un’altra foto che mostra la vittima con ferite da taglio multiple sulle braccia e sul torso. «Il signor Valsecchi Giacomo ora è in terapia intensiva in gravi condizioni».
«È un barbone…» borbotta Marco.
«Il signor Valsecchi» insiste Raffaele, scandendo le parole, «potrebbe non farcela. Tu e i tuoi amici siete in guai grossi. Nella foto si distinguono chiaramente Andrea e Alex mentre aggrediscono l’uomo con un’arma, tu invece sei immobile».
Marco non commenta, e riprende a tormentarsi le mani.
«Se collabori, e mi dici chi altro c’era e dov’è finito il coltello» Raffaele addolcisce la voce, «magari te la cavi solo con un’accusa di concorso omissivo di reato e—»
Il ragazzo scatta di nuovo in piedi e si sporge in avanti, con le dita aggrappate al bordo della scrivania, sbiancate dallo sforzo di rimanere ancorate a qualcosa.
«Ho detto che non faccio la spia, cazzo!»
«Sarebbe cambiato qualcosa se al posto del signor Valsecchi ci fosse stato qualcuno a cui tieni?»
Marco si risiede e abbassa lo sguardo. «Lei non capisce…»
«Hai ragione, non capisco» dice in tono sconsolato. «Possibile che la giustizia valga meno della lealtà nei confronti dei tuoi amici? Anche se hanno quasi ucciso un uomo?»
Il ragazzo solleva la testa. Raffaele incrocia i suoi occhi alla ricerca di un barlume di consapevolezza, e per un attimo gli sembra di scorgerla.
«È che… se ti mostri debole, ti considereranno sempre un debole».
«Chi? I tuoi amici?»
«Tutti. È come un tatuaggio. Sei marchiato a vita».
Raffaele sospira. «La vita è lunga, non c’è solo la scuola… Quella prima o poi finisce».
Marco fa un sorrisetto storto. «Gliel’ho detto che non avrebbe capito».
«Credi veramente che aggredire un uomo indifeso sia una dimostrazione di forza?»
«Non lo so…» borbotta lui esasperato. «Non è questo il punto».
«E qual è il punto?»
«Se non fai quello che ci si aspetta da te finisci come un emarginato».
«Quindi è più importante essere accettati dalla comunità, anche se significa abbracciare valori sbagliati, piuttosto che fare la cosa giusta».
Marco fa una smorfia, come se Raffaele avesse detto la cosa più stupida del mondo. «Parli come mio padre».
Raffaele non commenta. Rimane in silenzio a osservarlo.
Marco ha smesso di infierire con i piedi sul pavimento.
«Io non so cosa sia giusto, so solo che se non ti mostri forte sei perduto, è la fine».
Raffaele si sporge sulla scrivania per avvicinarsi il più possibile al viso del ragazzo.
«Non hai risposto alla mia domanda».
Marco solleva la testa e gli rivolge un’occhiata interrogativa.
«Se al posto del signor Valsecchi ci fosse stato qualcuno a cui tieni, tuo padre o un tuo caro amico, ti saresti comportato allo stesso modo?»
«Non lo so».
«Saresti rimasto lì impalato a guardare che veniva pestato a sangue?» insiste Raffaele.
«Ho detto che non lo so» ripete Marco alzando il tono.
«Non avresti fatto nulla per paura di essere considerato un debole?» lo incalza, e sente anche la sua voce che sale in crescendo.
«Non lo so. Ho detto che non lo so. Basta!» gli urla contro e si mette le mani sul viso coprendosi gli occhi e la bocca. Poi prende a dondolare il tronco avanti e indietro, borbottando contro i palmi. Forse sta piangendo, Raffaele non riesce a capirlo. All’improvviso il ragazzo si raddrizza sulla sedia e abbassa le mani portandosele alle ginocchia. Guarda Raffaele con aria di sfida.
«Abbiamo finito?» gli sibila contro Marco.
Lui studia il ragazzo per diversi secondi. Pensa al padre che sta aspettando di fuori. Gli ha parlato, gli è sembrato una brava persona… All’inizio, Raffaele era arrabbiato, e la rabbia era aumentata nel vedere le fotografie della vittima. Poi, nel parlare con Marco, la rabbia era diventata frustrazione, senso di impotenza, e adesso? Quello che sente è compassione? Sicuramente prova pena per la sua famiglia, ma per il ragazzo… Raffaele non lo sa. Sa solo che è esausto.
Nel frattempo, Marco riprende a fissare il pavimento, con le labbra serrata, di nuovo chiuso nel suo ostinato silenzio.
«Sì, abbiamo finito».
Lascia un commento