In quella zona paludosa l’aria era fredda e pungente. Gli alti canneti circondavano la tenuta indicando il cielo grigio con le loro lunghe dita marroni. Era autunno, e il profumo terroso e umido delle foglie in decomposizione sparse per tutto il giardino gli riempiva le narici con tale violenza che gli sembrava di soffocare.
La proprietà, nonostante fosse ancora abitata dai nonni e da qualche cugino del padre, era in un evidente stato di abbandono. Nessuno si era premurato di raccogliere le foglie cadute dagli alberi che si erano accumulate nel giardino e che, appesantite dall’umidità, avevano straripato all’interno dei sentieri sterrati fino quasi a coprirli.
Il servitore stava parlando alla madre rivolgendosi a lei in modo garbato, ma l’espressione del viso lasciava trapelare un velo di disapprovazione.
Sua madre stava parlando con un servitore del maniero dove vivevano i nonni. Guglielmo non li vedeva da quando era molto piccolo, dopo che la mamma aveva lasciato papà e se ne erano andati a vivere lontano. Nonostante fosse vissuto lì nei suoi primi anni di vita, non ricordava nulla di quel posto. Gli sembrava un luogo completamente estraneo.
La discussione verteva sul fatto che la mamma era in ritardo, che i funerali di papà erano finiti da un pezzo e che i nonni l’avevano aspettata inutilmente per parecchio tempo prima di procedere con il rito funebre in sua assenza.
Guglielmo sapeva che la mamma non era contenta di essere lì; durante il viaggio era stata silenziosa, ma non aveva mai pianto. Gli aveva detto che doveva risolvere delle questioni burocratiche con i nonni in relazione al testamento, e che sarebbero tornati a casa al più presto. Non aveva detto una parola sulla malattia di suo padre né di cosa esattamente fosse morto.
«Guglielmo, io ora vado con questo signore dai nonni per parlare di alcune noiose faccende» lo informò la madre inginocchiandosi davanti a lui. «Tu rimani qui fuori a giocare, io ci metto poco».
«Ma mamma…» si lamentò Guglielmo che non vedeva nei dintorni nulla che potesse assomigliare a un parco giochi.
«Giacomo, uno dei tuoi cuginetti, ti raggiungerà a breve così potrai giocare un po’ con lui, va bene?» La voce della mamma era piena di tensione e i suoi occhi erano tristi. Guglielmo non voleva darle ulteriori preoccupazioni e fece sì con la testa un paio di volte.
«Bene, sei un bravo bambino, Guglielmo». La mamma sembrò rilassarsi, gli diede un bacio veloce sulla fronte e si incamminò verso il maniero di pietra grigia scortata dal servitore.
Guglielmo aspettò sul viale che conduceva all’ingresso fino a che la casa non inghiottì la mamma al suo interno. Si guardò attorno per qualche minuto. Poi volse gli occhi al cielo che era grigio come grigio era tutto il resto attorno a lui. Perfino gli alberi spogli avevano perso il loro colore naturale assumendo quello plumbeo che li ricopriva, come se si fossero fusi in un acquarello troppo diluito. In quel momento, uno stormo di uccelli migratori sorvolò lo spazio sopra di lui in una perfetta formazione a freccia. Viaggiavano verso sud sorvolando la vasta distesa di acque stagnanti sotto di loro. Guglielmo seguì con lo sguardo il loro percorso finché non sparirono all’orizzonte, oltre le nuvole scure che si stagliavano in lontananza.
Poi la sua attenzione fu attratta da un piccolo boschetto che si estendeva sul lato ovest della tenuta.
Guglielmo non aveva un orologio con sé ma ritenne fosse trascorso abbastanza tempo per concludere che questo cuginetto Giacomo non sarebbe più venuto. E comunque non si sentiva in vena di giocare con nessuno in quel momento.
Decise di perlustrare la zona e di iniziare proprio da quel boschetto.
Raccolse un ramo nodoso da utilizzare come bastone da passeggio, come aveva visto fare da alcuni adulti durante le passeggiate in montagna. Avvicinandosi al gruppo di alberi che aveva scambiato per un bosco, Guglielmo si rese conto che si trattava principalmente di una selva di canne dal fusto alto e sottile che terminavano all’estremità con un ciuffo giallo-marrone simile a una pannocchia piumosa. Gli unici veri alberi erano due enormi salici che curvavano verso l’interno di un piccolo stagno sfiorando con le loro foglie pendenti la superficie dell’acqua. Si trattava di una piccola insenatura che sfociava più avanti in un acquitrino più ampio, trafitto ai bordi da giunchi e canne di palude più alte rispetto a quelle che lambivano la riva. Guglielmo rimase un po’ deluso, sperava in una piccola foresta dove addentrarsi e magari raccogliere frutti di bosco, ma decise che tutto sommato fosse un posto abbastanza appartato e tranquillo dove aspettare che la madre concludesse le sue incombenze. Trovò la base tagliata di un albero e ci si sedette, lasciò il bastone per terra e appoggiò i gomiti sulle ginocchia ad osservare l’acqua calma e silenziosa di quella pozza.
Su alcune larghe foglie galleggianti si posavano le libellule a riposare, e sicuramente da qualche parte lì sotto si nascondevano delle rane; anche se Guglielmo non le vedeva, sentiva il loro gracidare.
La superficie placida dell’acqua si mise a ribollire vicino ad alcuni fusti di canna. Guglielmo aguzzò la vista nella speranza di scorgere una lontra o un altro animale acquatico. Rimase in silenzio ad osservare aspettando che qualcosa emergesse dall’acqua.
In quel momento si alzò un alito di vento che agitò le fronde dei salici e increspò lo specchio dello stagno. Le bolle d’aria seguirono una direzione precisa: dalle canne verso una delle foglie galleggianti, e dopo qualche secondo questa si sollevò. Guglielmo sussultò per la sorpresa, ma rimase immobile. Aveva paura che facendo rumore l’animale si spaventasse e scappasse via. Trattenne il respiro nell’attesa.
La foglia si rialzò ulteriormente e un paio d’occhi si spalancarono nella penombra appena sopra la superfice dell’acqua. Non erano sicuramente gli occhi di una lontra né tanto meno quelli di una rana.
La creatura rimasta sommersa fino a un attimo prima emerse dallo stagno portandosi dietro la foglia che rimase appiccicata alla sua testa a mo’ di copricapo. Si trattava di una bambina.
«Ehi!» esclamò Guglielmo tra il sorpreso e l’allarmato. «Hai bisogno di aiuto per uscire di lì?» continuò lui avvicinandosi a carponi in prossimità della riva più preoccupato per la sua incolumità che impressionato di veder emergere qualcuno dalle acque della palude.
La bambina aveva gli occhi verdi e grandi. I capelli erano lunghi e chiari ma erano talmente ricoperti di alghe e muschio che non si distingueva il loro colore naturale. Era immersa fino alla vita e il busto era fasciato da una specie di abito traslucido che sembrava composto da foglie cucite tra di loro. Piegò la testa di lato in risposta alla domanda di Guglielmo, ma non rispose.
«Stai bene? Vuoi che vada a chiamare qualcuno?» chiese Guglielmo sempre più allarmato.
La bambina rimaneva in silenzio e lo studiava incuriosita.
Guglielmo, non sapendo che fare, fece per alzarsi con l’idea di andare a chiedere aiuto.
«No, non andartene» esclamò la bambina in tono calmo intuendo la sua intenzione. «Non ti ho mai visto da queste parti… Abiti anche tu al castello?»
Guglielmo non aveva pensato che la casa dei nonni potesse essere considerato un castello ma a pensarci bene poteva tranquillamente assomigliare a una piccola fortezza.
«No, sono qui solo in visita» disse Guglielmo che si era tranquillizzato nel vedere che la bambina parlava e non sembrava ferita. «Ci abitano i miei nonni… Mia madre è dentro a parlare con loro ma tra poco esce».
«E perché tu non sei entrato con lei?» chiese la bambina con una voce che sembrava priva di inflessione.
«Ehm, non so… Mia madre mi ha detto che dovevo aspettare fuori…» commentò lui che di fatto non aveva pensato al perché non lo avesse fatto entrare a salutare i nonni.
La bambina non disse nulla. Continuò a fissarlo incuriosita.
«Perché non esci da lì? Vuoi che ti aiuti?» ribadì Guglielmo allungando il braccio nella sua direzione.
La ragazzina studiò la mano tesa verso di lei come se fosse qualcosa di alieno. Poi sollevò lo sguardo verso Guglielmo e con estrema cautela la strinse con la sua. Guglielmo sentì un brivido di freddo lungo la schiena; la mano della bambina era gelida e umida, ma non l’umidità della pelle bagnata dall’acqua bensì quella un po’ viscida che continua ad avere un pesce anche quando è fuori all’aria asciutta.
Guglielmo la tirò verso di sé ma la bambina non si mosse, rimase ferma impalata come se non avesse capito che quel gesto serviva ad aiutarla ad uscire dallo stagno.
«Dai, vieni» sollecitò Guglielmo continuando a strattonarla.
La bambina emerse dalla pozza d’acqua, si arrampicò sul bordo e si sedette accanto a lui con un’agilità inaspettata; Guglielmo concluse che sarebbe uscita da quel pantano tranquillamente da sola.
L’indumento simile a uno strato di foglie verdi che le fasciava il busto le arrivava solo fino al bacino facendole da costume e lasciandole le gambe nude. La sua pelle era bianca tendente al verde, Guglielmo immaginò che quella sfumatura verdastra fosse dovuta allo strato di melma verde che le era rimasta addosso nuotando nella palude. Emanava un odore legnoso e leggermente dolciastro.
«Ti servirebbe una bella doccia, eh?» commentò Guglielmo sorridendole.
La bambina lo guardò perplessa.
«Ehm, voglio dire… Immagino ti sentiresti meglio dopo una bella doccia…» si corresse temendo di averla offesa. Ma la bambina non mostrò nessuna reazione. Rimase seduta accanto a lui sul bordo dello stagno a fissarlo. Sentendosi a disagio Guglielmo distolse lo sguardo.
«Abiti qui?» chiese guardando il canneto davanti a sé.
«Sì, abito qui» rispose prontamente la bambina.
«Come ti chiami?»
La bambina ci pensò su, come se più che dirgli il suo vero nome ne stesse scegliendo uno nuovo.
«Helobia».
«Helobia è il tuo nome?»
«Sì, Helobia è il mio nome» gli fece eco la bambina.
«È un nome strano… Ma mi piace… Helobia… Suona bene» commentò pensieroso. «Io mi chiamo Guglielmo» si presentò lui.
La bambina per la prima volta sorrise. Non poteva dire che fosse bella, era un po’ troppo strana… con quegli occhi eccessivamente grandi e il colore della pelle e dei capelli che ricordavano quello della stessa palude… Ma era a suo modo graziosa, soprattutto quando sorrideva.
Rimasero in silenzio per qualche minuto.
Helobia sciaguattava con i piedi nello stagno mentre Guglielmo cominciava a sentirsi imbarazzato. Non gli venivano in mente argomenti di conversazione degni di essere definiti tali. Già era timido con i suoi coetanei, figuriamoci con una ragazzina.
«Sarà meglio che me ne vada, magari mia madre mi sta cercando…» se ne uscì Guglielmo all’improvviso.
«No, no…» esclamò improvvisamente Helobia. «Rimani qui con me ancora un po’, giochiamo…»
Il tono della sua voce era diventato ancora più strano: il suo timbro era più acuto ma, nonostante il contenuto delle parole fosse di allarme, e il comportamento fosse in allerta, non sembrava avere nessun tipo di inflessione emotiva.
«A cosa vuoi giocare Helobia?»
«Non so…» disse assumendo un espressione pensosa. «Posso mostrarti dove vivo…» si animò Helobia di colpo. La sua voce rimaneva atona, ma il viso della bambina era molto espressivo.
«Sì, va bene» rispose Guglielmo che non voleva essere maleducato. «Ma solo per poco… Poi devo andare dalla mamma…»
Helobia non commentò, lo prese per mano e lo trascinò in mezzo al canneto.
Mentre la seguiva, Guglielmo notò che aveva le unghie dei piedi e delle mani sporche di muschio e di terra, come se avesse raschiato il fondo della palude.
«Ma non hai freddo vestita così?» chiese rendendosi conto che la bambina andava in giro mezza nuda in pieno ottobre.
«No, io non ho mai freddo» proclamò Helobia in tono piatto.
Percorsero qualche metro tra le canne di palude, i fusti legnosi degli arbusti e altre piante erbacee di cui Guglielmo non avrebbe saputo dire il nome. Non c’erano fiori, ormai l’autunno se li era portati via tutti, e le bacche rappresentavano l’unico tocco di colore in mezzo a tutto quel marrone, giallastro e verde smorto. La bambina lo trascinò in una piccola radura e a quel punto gli lasciò andare la mano.
«Guarda, qui ci vengo di solito a mangiare…» disse Helobia accovacciandosi a terra.
«Che cosa c’è qui di così speciale… Mi sembra esattamente uguale al resto della palude…» commentò Guglielmo che si stava chiedendo quanto fosse grande quel posto. Dalla casa dei nonni non sembrava così vasto.
«Non è tutto uguale, Guglielmo. Qui, ad esempio, c’è un nido di anatre, e laggiù» indicò con la mano qualche metro più in là. «ci vanno le lontre a cacciare e a pescare».
Helobia si mise ad armeggiare tra gli arbusti.
«Vuoi?» chiese mostrandogli una lumaca.
«Cosa ci dovrei fare con quella?»
«Mangiarla…»
La bambina aggrottò le sopracciglia e lo guardò confusa. Poi, si portò la lumaca alla bocca e succhiò via il suo corpo molle davanti allo sguardo esterrefatto di Guglielmo.
«Blah! Che schifo!» esclamò trattenendo un conato mentre Helobia esplorava avidamente con la lingua il guscio.
«È buonissima… Tu non mangi le lumache?»
«Sì, cioè no… gli adulti le mangiano, ma le cuociono prima… A me fanno comunque impressione anche cotte».
Helobia ne mangiò un altro paio che teneva in una specie di nascondiglio tra i cespugli, e poi buttò in acqua i gusci vuoti.
«Vuoi vedere il mio piccolo tesoro?» chiese la bambina con gli occhi spalancati da un emozione che non riusciva a comunicare a parole ma esprimeva chiaramente con lo sguardo.
«Sì…»
Dopo averle visto mangiare le lumache, Guglielmo non sapeva se ci tenesse poi tanto a vedere il piccolo tesoro di quella strana bambina, ma non voleva offenderla.
Helobia si inginocchiò di nuovo e, nello stesso cespuglio dove teneva il suo bottino di lumache, sollevò una zolla di terra estraendone un piccolo scrigno.
Poi si sedette sul bordo del placido fiume; grossi massi ricoperti di muschio verde emergevano interrompendo pigramente il suo lento percorso.
La bambina picchiettò lo spazio erboso accanto a sé indicandogli di sedersi.
«Dove sono i tuoi genitori?» chiese Guglielmo accomodandosi al suo fianco e incrociando le gambe per non bagnarsi i piedi. Helobia, invece, immerse i suoi nell’acqua come se fosse la cosa più naturale del mondo; doveva essere ghiacciata ma la bambina non sembrò farci caso. Guglielmo notò anche che i suoi capelli, che avrebbero dovuto asciugarsi un po’, o quanto meno incresparsi all’aria aperta, erano ancora fradici come se fosse uscita dallo stagno solo pochi secondi prima.
«Non lo so… Forse non li ho» disse con noncuranza la bambina mostrandogli il contenuto dello scrigno.
Il piccolo cofanetto era pieno di oggetti di ogni genere; sembravano cose che qualcuno poteva aver dimenticato in giro, o perso, o che erano cadute mentre passeggiava, e che la bambina aveva poi trovato e raccolto: una molletta ricoperta di pietre luccicanti di cui una mancante, un bottone di madreperla, delle monete ossidate, dei bigliettini di carta ingiallita, un bracciale di strass, qualche biglia colorata, e altra roba che la madre di Guglielmo avrebbe definito ciarpame. Helobia toccava i suoi beni preziosi spostandoli e rimestandoli con venerazione come se si trattasse di un vero tesoro.
«Sono proprio belli…» disse Guglielmo che aveva imparato dalla madre a dire parole di apprezzamento davanti a un regalo che si riceve o che qualcun altro sfoggia.
«Cosa vuol dire che forse non li hai? I genitori, dico…»
«Questo è il mio preferito» disse Helobia mostrandogli un fermaglio per capelli di ceramica con decorazioni floreali.
«È molto bello…» commentò Guglielmo senza prestare molta attenzione a quell’oggetto ma soffermando lo sguardo sulla bambina in attesa della riposta alla sua domanda.
Helobia chiuse lo scrigno rivestito di conchiglie e se lo mise a fianco.
«Cosa fanno di preciso i genitori?» chiese la bambina. La sua voce per la prima volta assunse un qualche tipo di inflessione emotiva; si velò di un tono triste e un po’ malinconico.
«I genitori sono la mamma e il papà di qualcuno… Si prendono cura dei loro figli e li proteggono dalle cose brutte del mondo…» spiegò Guglielmo cercando la definizione più adatta a chiarirne il significato, almeno secondo lui.
«Mhmm…» Helobia iniziò a disegnare dei cerchi nell’acqua con i piedi. «Allora forse io non li ho mai avuti».
«Ma non è possibile… Tutti hanno dei genitori… Dove vivi?»
«Qui. Ho sempre vissuto qui, da quando c’è il castello» spiegò la bambina facendo un cenno con il mento in direzione della casa dei nonni.
«Mi spiace…» Guglielmo ipotizzò fosse un orfana o addirittura che i suoi genitori l’avessero abbandonata nella palude quando lei era ancora molto piccola. Doveva essere riuscita a sopravvivere in qualche modo in quel posto freddo e inospitale. Guglielmo ricordava molte favole e storie di bambini cresciuti dai lupi nelle foreste o da altri animali in luoghi altrettanto incompatibili con la sopravvivenza di un piccolo umano. Helobia poteva essere uno di quei bambini.
«Non ti senti sola?» chiese Guglielmo cauto.
«A volte…»
«Hai conosciuto altri bambini come me?»
Helobia rimase in silenzio per qualche istante, poi si voltò a guardarlo.
«Sì, ma non come te» disse tornando ad assumere quel suo tono inespressivo della voce. «Qualche bambino è venuto qui ma era… cattivo».
«Cosa vuoi dire? Ti hanno fatto del male…»
«Non ne hanno avuto il tempo… Ma erano dispettosi, lanciavano sassi alle anatre e cacciavano gli animali in maniera crudele…»
«Oh, mi spiace…»
L’atmosfera un po’ malinconica fu interrotta dal brontolio dello stomaco di Guglielmo. Helobia lo guardò perplessa e poi scoppiò a ridere.
«È che forse non ho mangiato molto a colazione…» cercò di scusarsi Guglielmo imbarazzato.
«Sei sicuro che non vuoi qualcosa da mangiare? Ti procuro degli ottimi molluschi… Oppure dei gamberi di palude, sono molto buoni sai?»
«No, no… Grazie». L’idea di mangiare quelle cose crude gli stava facendo contrarre la bocca dello stomaco. Poi, si ricordò che aveva ancora qualche liquirizia che la mamma gli aveva comprato alla stazione dei treni, e tirò fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni il sacchetto di plastica accartocciato.
Offrì alla bambina le sue rotelle di liquirizia. Helobia le guardò con sospetto, ne estrasse una e l’annusò.
«Che odore strano… Sembra anice, ma dolce…» commentò la bambina portandosi alla bocca una rotella. Ne assaggiò un boccone e poi iniziò a sputacchiare pezzi di liquirizia tutt’attorno tossendo spasmodicamente.
«Che schifo!» sentenziò Helobia.
Guglielmo sorrise e se ne cacciò in bocca una intera masticandola con gusto.
«A me piacciono…»
«Le bacche di sambuco sono delle leccornie in confronto…» commentò la bambina.
Helobia iniziò a massaggiarsi con la mano la lingua annerita dalla liquirizia. Quel gesto a Guglielmo parve così buffo che iniziò a ridere. La bambina lo guardò perplessa. Guglielmo rise ancora più forte indicandola con il dito mentre con l’altra mano si teneva la pancia. Helobia guardò le dita sporche del nero di quel cibo nauseabondo e sorrise.
«Faceva proprio schifo… Eh?!» Poi anche lei iniziò a ridere divertita.
Trascorsero qualche minuto così: Guglielmo che mangiava le rotelle di liquirizia e ogni tanto si fermava e riprendeva a ridere, e Helobia lo imitava.
«Guarda!» esclamò Guglielmo all’improvviso. Due cuccioli di lontra stavano uscendo in quel momento da una tana che si intravedeva appena sotto il pelo dell’acqua. I due piccoli erano seguiti da quella che doveva essere la madre. La mamma lontra era snella e agile; aveva una fitta pelliccia lucida di umidità; le zampette erano palmate, il musino corto e tondo con due piccole orecchie; gli occhietti erano scuri ed espressivi; le lunghe vibrisse erano simili a quelle delle nutrie, ma le lontre erano molto più buffe e simpatiche con i loro movimenti a scatti quando si alzavano in posizione eretta a guardarsi attorno con curiosità. I due piccoli erano meno caratterizzati nelle loro fattezze, avevano ancora quell’aspetto informe che hanno spesso i cuccioli appena nati.
Guglielmo seguì eccitato il percorso della piccola famigliola che nuotava nell’acqua. Ad un certo punto incontrarono un tronco che bloccava loro il cammino. Il livello del fiume era troppo basso per poterci passare sotto, così la mamma lontra iniziò a spingere il tronco usando la testa e le sue zampette palmate.
«Forse è meglio se vado ad aiutarle» disse Guglielmo in tono apprensivo. «Provo a spostare il tronco così possono passare…»
Guglielmo fece per alzarsi ma Helobia lo fermò cingendogli il polso con la mano.
«No, non è necessario».
Con l’altra mano la bambina fece un gesto dal basso verso l’alto e improvvisamente il livello dell’acqua si alzò e la corrente del fiume aumentò. Le lontre superarono agilmente il tronco che era stato sommerso dall’improvvisa crescita del torrente.
«Sei stata tu?» chiese Guglielmo sbalordito.
Helobia abbassò lo sguardo imbarazzata.
«È fantastico! Come hai fatto?» insistette Guglielmo dando per scontata la risposta affermativa della bambina.
«Non lo so… L’acqua fa quello che le dico…» rispose Helobia che sembrava rinfrancata dall’entusiasmo del suo ospite.
«È… è come una magia…» commentò Guglielmo con espressione meravigliata. «Forse tu sei una specie di fata…»
«Una fata?» domandò Helobia incuriosita.
«Sì, come quelle nelle favole… che usano la magia per fare delle cose buone…»
Helobia non sembrava convinta, lo guardava pensierosa come a soppesare la questione.
«EHI, TU!»
Una voce irruppe dal nulla dietro di lui.
«Parli da solo? Sei matto come tua madre, allora…»
Un ragazzo che doveva avere qualche anno più di lui era comparso nella sterpaglia. Era alto e grosso e aveva il tipico atteggiamento prepotente che avevano alcuni bulli nella sua scuola che facevano il bello e il cattivo tempo all’intervallo tra una lezione e l’altra. Guglielmo si voltò per cercare Helobia al suo fianco ma lei era sparita, era rimasto solo il suo scrigno.
«E quello cos’è? L’hai rubato?» chiese il ragazzone avvicinandosi con fare intimidatorio.
«No, è di una mia amica» rispose Guglielmo con tono fermo.
«Sei appena arrivato, non puoi avere amici qui. Dammelo!»
«No, allontanati da me». Guglielmo si alzò in piedi di scatto e portò lo scrigno dietro la schiena tenendolo con entrambe le mani.
«Come osi… idiota che non sei altro. Sei solo un ladro…»
Il ragazzo spintonò Guglielmo che rovinò a terra. Il cofanetto cadde sull’erba e aprendosi sparpagliò tutto il suo contenuto.
«Lo sapevo, sei un ladro… come tua madre che viene qui a rubare quello che è nostro» ringhiò il bullo che si avvicinò ulteriormente a Guglielmo. Mentre strascicava i piedi nella sua direzione, il ragazzo strinse i pugni con fare minaccioso. Aveva perso completamente interesse per i tesori sparsi per terra, aveva tutta l’aria di volersela prendere con lui.
Guglielmo era un bambino piccolo per la sua età, era minuto e l’unica tattica che conosceva per scampare alle aggressioni dei bulli di scuola era la fuga. Ma in quella posizione, in mezzo a quella palude sperduta nel nulla, senza nessuno a cui chiedere aiuto, non aveva molta scelta. Così, chiuse gli occhi con rassegnazione in attesa dell’impatto. Sperò in un pugno, i calci facevano più male.
Sentì il calore del grosso corpo del ragazzo farsi più vicino ma i sibili e i bassi ringhi che lo accompagnavano cessarono di colpo e furono sostituiti da una specie di rantolo soffocato.
Guglielmo aprì gli occhi e vide il tipo che stava per aggredirlo portarsi le mani alla gola. Un ramo di una qualche pianta rampicante gli si era avvolto attorno al collo e lo strattonava verso il fiume. Altri rampicanti schizzarono fuori dall’acqua e circondarono con le loro spire il corpo del ragazzo che cadde in ginocchio ansimando. Guardava Guglielmo con gli occhi spalancati dal terrore e dallo stupore.
I rami che cingevano il ragazzo intorno alle gambe e al busto erano ricoperti da foglie a forma di cuore e da piccoli fiori viola; lo tiravano inesorabilmente verso l’acqua. Il ragazzo smise di provare a liberarsi la gola e cadde prono artigliando il terreno nel tentativo di contrastare la forza della pianta.
Guglielmo osservava la scena inorridito. Era contento di essere sopravvissuto incolume all’aggressione ma non voleva che quel ragazzo, per quanto si meritasse una lezione, si facesse male sul serio.
«Helobia! Sei tu Helobia?» gridò Guglielmo rivolgendosi all’aria intorno a sé. La bambina era scomparsa ma era sicuro che quella fosse un’altra delle sue magie.
«Helobia, se mi senti, smettila. Ha avuto quel che si meritava, può bastare ora» urlò Guglielmo in tono implorante.
Il ragazzo, intanto, era finito nel fiume e annaspava disperato mentre l’edera del pantano lo tratteneva verso il basso cercando di annegarlo.
«Helobia, ti prego…» singhiozzò Guglielmo.
Improvvisamente i rampicanti mollarono la presa, e si ritirarono scomparendo nell’acqua verde e melmosa. Il ragazzo si alzò con fatica tossendo e sibilando nel tentativo di inspirare aria nei polmoni. Uscì dal torrente arrancando sulla riva e massaggiandosi la gola arrossata ed escoriata. Aveva le lacrime agli occhi e rivolse a Guglielmo uno sguardo di puro terrore.
Si alzò grondando acqua e fango, e scappò da dove era arrivato senza dire una parola.
«Forse non sono come quelle fate buone di cui parlavi prima… Vero?»
Guglielmo si voltò di scatto e vide la bambina seduta sul bordo della palude esattamente dove stava prima, con le braccia che avvolgevano le gambe piegate. La sua pelle era anche più verde di come gli era sembrata all’inizio, ed era ancora bagnata.
Guglielmo si avvicinò cauto a Helobia e si inginocchiò davanti a lei.
«Sì, invece. Mi hai salvato la vita» disse sorridendole. «Potevi fargli male, e invece ti sei fermata e lo hai lasciato andare…»
«Già… ma solo perché me lo hai chiesto tu…» bofonchiò la bambina con il mento appoggiato alle ginocchia. L’acqua le colava dai capelli, delle gocce le scesero sul viso rigandole le guance come fossero lacrime.
«Beh, l’importante è che ti sei fermata… Mia madre mi dice spesso: “Abbiamo sempre una scelta, Guglielmo, e sono proprio le scelte che facciamo che ci definiscono”» esclamò sollevando il mento con espressione solenne.
Helobia non sembrava rincuorata dalle parole di Guglielmo che vedendola ancora triste si mise a raccogliere da terra i tesori della bambina rimettendoli nello scrigno e facendo attenzione a non tralasciare nulla. Poi porse il cofanetto alla bambina che lo prese e lo appoggiò accanto a sé con cura.
«Dovrebbe esserci tutto…» la rassicurò Guglielmo. «Aspetta… Mi sono ricordato di una cosa…»
Guglielmo si mise a cercare nelle tasche dei pantaloni e poi nella giacca. Finalmente trovò quello che stava cercando.
«L’ho trovato nelle patatine… ogni tanto ci mettono delle sorprese…»
Guglielmo mostrò a Helobia un soldatino di piombo, sembrava una delle guardie reali della regina d’Inghilterra, non era colorato ma i particolari erano molto ben definiti.
«Che bello…» commentò la bambina.
«Prendilo, è tuo» disse Guglielmo porgendoglielo.
Helobia lo guardò incredula.
«Davvero?»
«Certo, mi hai salvato la vita. Ti sono debitore. Questo regalo è niente in confronto a quello che hai fatto per me…»
La bambina con un gesto esitante allungò una mano verso l’oggetto continuando a guardare Guglielmo perplessa.
«Sei sicuro?» domandò Helobia dubbiosa.
«Certo, puoi aggiungerlo ai tuoi tesori…»
Helobia lo prese con cautela e se lo rigirò tra le mani come se avesse paura di romperlo.
«Grazie… È bellissimo». La bambina gli rivolse un timido sorriso di gratitudine e si strinse al petto il soldatino.
Da lontano Guglielmo sentì urlare il suo nome. Era la mamma che lo stava chiamando.
«Ora devo andare, Helobia. La mamma mi sta cercando».
Il sorriso della bambina si spense rabbuiandole il volto.
«Perché non rimani qui con me…?» chiese Helobia in un sussurro.
«Non posso… La mamma ha bisogno di me…» le disse in tono triste. «Ma tornerò presto, te lo prometto» concluse con un sorriso sincero.
«Promesso?» domandò la bambina speranzosa.
«Promesso» giurò Guglielmo sollevando la mano destra a sancire solennemente il giuramento.
Si sentì ancora la madre che urlava il suo nome con maggiore urgenza.
Guglielmo si alzò da terra e si incamminò verso il sentiero da cui erano arrivati. Poco prima di imboccarlo si voltò verso Helobia.
«Perché non vieni con noi? Sono sicuro che la mamma ti vorrà bene come ne vuole a me…»
La bambina fece un sorriso così ampio che la pelle del viso sembrò illuminarsi. Gli occhi si fecero più grandi e più verdi. I capelli bagnati le cadevano sulle spalle, erano agghindati di piccoli fiori viola e di foglie a forma di cuore che prima Guglielmo non aveva notato. Seduta sul bordo della palude, tra i giunchi e le canne alte con il loro batacchio spumoso, Helobia sembrava una piccola sirena che stringeva al petto il suo prezioso tesoro.
«Grazie di avermelo chiesto…» disse la bambina piegando di lato la testa. «Ma io appartengo a questo posto, non posso allontanarmi da qui. Questa palude è la mia casa».
Guglielmo fece un cenno di assenso con la testa come se in qualche modo potesse comprendere la motivazione della bambina.
«Allora, a presto Helobia».
«A presto, Guglielmo».
E il bambino corse via seguendo la direzione da cui proveniva la voce della mamma che lo chiamava con tono sempre più allarmato.
Guglielmo si fece strada in quella folta foresta di canne e raggiunse lo stagno dove aveva incontrato Helobia. Riconobbe i salici che solleticavano lo specchio d’acqua con le loro affusolate dita frondose; i muschi acquatici e le numerose alghe che coprivano gran parte di quel laghetto paludoso conferivano a quel posto un atmosfera sospesa; i rami spogli delle piante attorno allo stagno si protendevano verso l’alto come dita scheletriche. Nonostante si sentisse sibilare il vento freddo di fine ottobre, sembrava tutto immobile e fermo, come se il tempo in quel posto avesse cessato di scorrere.
Guglielmo proseguì verso la casa dei nonni.
«Eccoti! Ma dove eri finito?» domandò la madre con un sospiro di sollievo. «Cominciavo a temere ti fossi perso o ti fossi fatto male…»
«Sto bene, mamma» disse Guglielmo con tono fermo per tranquillizzarla. «Hai finito di parlare con i nonni?»
La madre rimase in silenzio per qualche secondo, poi si inginocchiò all’altezza del figlio. Aveva uno sguardo malinconico ma a suo modo sembrava più tranquilla.
«Dove sei stato? Hai trovato Giacomo che è venuto a cercarti?»
«No, non l’ho visto mamma» mentì Guglielmo.
«Devi stare attento… Questo posto può diventare pericoloso… Ci sono stati degli incidenti nei dintorni: alcuni ragazzi si sono addentrati in queste paludi e non hanno fatto più ritorno…»
La madre gli accarezzò il viso guardandolo con affetto.
«Lo so che in questi giorni sono stata nervosa e non ti ho raccontato molto di quello che è successo… È che quando si è adulti le cose possono farsi complicate e diventano difficili da spiegare…»
«Ma va tutto bene, mamma?» chiese Guglielmo preoccupato.
«Sì… L’avvocato ha letto il testamento. Tuo padre ti ha lasciato questa tenuta…» disse la madre in tono abbattuto. Guglielmo non capiva perché avesse quell’espressione sconsolata. Aver ereditato quel posto a lui sembrava una buona notizia. Avrebbe potuto rivedere Helobia…
«Mi sembra una bella cosa… Perché allora sei triste?»
«Non so… forse non me lo aspettavo dopo tutto quello che è successo…» commentò la mamma sovrappensiero.
«Quindi ci trasferiamo qui?» chiese Guglielmo.
La mamma lo guardò perplessa.
«Ti piace così tanto questo posto così lugubre…?»
Guglielmo alzò le spalle con noncuranza.
«Non è poi così male…»
«Mah! Non so cosa ci vedi di così bello… Comunque, sì; ci trasferiremo qua tra un po’, ma non subito… Abbiamo concordato che finché ci saranno loro, i nonni abiteranno qui».
«Ma io posso sempre venirli a trovare, no?»
«Sei sicuro di star bene Guglielmo?» chiese la mamma studiandolo. «Sei strano…»
«Sono sempre i miei nonni…»
«Sì, certo. Se ci tieni possiamo organizzare… Sicuramente a loro farebbe piacere» commentò la madre con poca convinzione.
«Bene, magari a Natale…?» propose Guglielmo con entusiasmo.
«Sì… Certo. Si può fare…» rispose la madre aggrottando le sopracciglia sospettosa.
«Mi stai nascondendo qualcosa Guglielmo?»
«No, sono solo contento di tornare qua…»
«Va bene…» La madre continuò a scrutare il figlio con aria scettica. «Ora andiamo che se no perdiamo il treno del ritorno».
La mamma si alzò e lo prese per mano. Insieme si incamminarono alla fine del sentiero sterrato in direzione dell’enorme cancello di ferro battuto che segnava il confine della tenuta.
Guglielmo si voltò in direzione del boschetto di canne a ovest della magione. Anche se non vedeva Helobia, era sicuro che lo stesse osservando mentre si allontanava. Con la mano sinistra teneva quella della mamma, così sollevò la destra in segno di saluto in direzione del fitto canneto. Poi rivolse lo sguardo avanti a sé proseguendo il cammino.
Una bambina con i capelli bagnati e vestita di foglie lo guardava nascosta tra le fronde. Quando vide Guglielmo sollevare la mano in segno di saluto, anche lei fece lo stesso. Helobia non era triste anche se il suo nuovo amico se ne stava andando. Guglielmo aveva promesso che sarebbe tornato. E le promesse, si sa, vanno sempre mantenute.
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