Il locale si stava svuotando rapidamente. Era un giorno infrasettimanale. Solo gli studenti e i disoccupati si potevano permettere di fare le ore piccole. E Fabio non era né l’uno, né l’altro.
Avrebbe dovuto andarsene da un pezzo. Ma quei cerchi liquidi sul bancone lo trattenevano; anelli d’ambra consacrati su un altare di onice e vetro.
La retroilluminazione avrebbe dovuto conferire al bar un’atmosfera elegante e moderna, ma a Fabio ricordava la fila di LED rossi dei segnaposti in un cinema porno. Con uno sforzo notevole riuscì a centrare con il bicchiere uno di quegli anelli bagnati. Uno schizzo di Duvel gli finì sulla manica della camicia. La spuma di quell’onda dorata lasciò una macchia giallastra sul suo polsino bianco.
«Ehi, amico» la voce del barman gli arrivò galleggiando nell’aria. «Ti chiamo un taxi? Io qui devo chiudere».
«Sì, sì. È facile per te… chiudere» biascicò Fabio. Il tizio sbuffò e si allontanò per andare a parlare con quello che sembrava il proprietario. Li sentì parlottare, poi il boss si avvicinò e si sedette sullo sgabello accanto al suo. Intanto, anche l’ultimo cliente se ne era andato.
«Chiama un taxi, Fede» urlò il tizio al barista. «Io aspetto qui e lo carico sopra quando arriva. Vai pure, chiudo io la baracca».
«Ti prego, non urlare» riuscì a dire Fabio in tono lamentoso. «Se parli così forte mi ferisci il cervello».
«C’è maretta in Paradiso, eh?» domandò l’altro, indicandogli con un gesto del mento la mano sinistra. Fabio guardò la fede che portava ancora al dito.
«Non c’è nessuna moglie» sussurrò, fissando l’anello. «È morta». Non sapeva bene perché lo avesse detto, gli era uscito di getto. Forse aveva bevuto troppo, o forse non abbastanza.
«Mi spiace, amico» borbottò il proprietario, e si appoggiò con i gomiti al bancone. «Ti capisco, sai. Anch’io ho perso la mia anni fa. Tumore».
«La mia si è ammazzata buttandosi dal terzo piano» disse Fabio tutto d’un fiato.
«Cristo, amico. Che botta!» L’uomo gli rivolse uno sguardo di compassione misto a incredulità.
«E come se l’avessi spinta io» mormorò lui, e si mise a rigirare la fede dorata con l’altra mano. Adesso il proprietario era visibilmente a disagio.
«L’ho tradita così tante volte… E Paola ogni volta mi perdonava». Sentiva la sua voce che usciva distorta. A stento la riconobbe come sua, quasi fosse qualcun altro a parlare.
«Non ci si uccide per così poco» provò a dire l’altro senza guardarlo in faccia.
«Era davanti alla finestra e minacciava di buttarsi» disse lui, ignorando le parole del proprietario. «Io avevo bevuto. Anche quella volta. La prendevo in giro. Le dicevo che non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo».
Fabio si ricordava bene quella notte, nonostante fosse ubriaco marcio. Ricordava lei che piangeva, con una gamba fuori dal davanzale e l’altra dentro, in equilibrio. Aveva i piedi nudi e la camicia da notte bagnata di lacrime sul davanti. C’era vento, e i capelli le sferzavano una guancia, accentuando il rossore del volto.
«Amico, senti» disse, e alzò una mano come a bloccarlo. «Non voglio farmi gli affari tuoi. Mi spiace per te, ma forse è meglio se—»
«Non l’ho fermata» lo interruppe lui. Si accasciò sul bancone e si prese la testa tra le mani. «Avrei potuto salvarla, ma non l’ho fatto».
Fabio non l’aveva mai raccontato a nessuno. Aveva detto di essere rientrato a casa e di aver trovato la finestra spalancata, quando ormai era troppo tardi. Era la prima volta che dava voce a quella notte.
«Mi sa che è arrivato il taxi» disse il tizio, e corse a controllare.
Paola non aveva urlato, cadendo. E a quella finestra, dopo, Fabio si era affacciato. Un’aureola di sangue si allargava sotto la sua testa, mentre il resto del viso era coperto dai lunghi capelli biondi. Il proprietario tornò. Lo aiutò a mettersi la giacca. Poi, prese uno straccio e lo usò per pulire il bancone in maniera sommaria. Mentre veniva scortato all’uscita, Fabio notò che erano rimasti degli aloni sbavati sulla superficie di onice e vetro.
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