Il mio nome è Aeron, Aeron di Ekofonia.
Sono nato e cresciuto in uno dei tanti insediamenti urbani che puntellavano il deserto di Zyrkhania. Le sue sabbie incandescenti lambivano quello che tutti conoscevano come il Mare di Cristallo, una distesa di sale e quarzo che brillava sotto il sole come un arazzo imbastito di fili d’oro, per poi riflettere la luce della luna al sopraggiungere della notte, trasformandosi in uno specchio argentato.
Fin da piccolo ho dato prova di un’intelligenza superiore alla norma. Coglievo messaggi arcani nei disegni lasciati sulle pareti di antiche rovine, decifrando linguaggi che neanche i grandi saggi erano in grado di comprendere. I miei genitori mi mandarono a studiare all’Accademia delle Arti Arcane del regno di Merath che ero poco più di un ragazzo. A quei tempi, la capitale era la splendida Astralys. Tutti gli edifici che la componeva erano realizzati in cristallo o in pietra bianca, e svettavano come colombi sul punto di spiccare il volo. La città si ergeva su un’isola al centro di un lago a forma perfettamente rotonda tanto che, se avevi la possibilità di guardarla dalla cima del Monte del Silenzio, appariva come un cerchio inscritto in un altro più grande. Un enorme occhio di alabastro.
Grazie ai promettenti risultati accademici, nonostante fossi ancora molto giovane, entrai ben presto a far parte del Gran Consiglio del Re di Merath insieme agli altri venti sapienti, uomini dotati di grande saggezza e acume.
Mi piaceva studiare e perdermi nelle pagine dei libri fino a dimenticarmi del mondo di fuori. In ogni nozione che apprendevo trovavo conforto, e non mi serviva perdere tempo in stupide chiacchiere o prendere parte ai giochi puerili degli altri ragazzi. D’altronde, non sono mai stato molto popolare tra i miei coetanei. Non mi importava, probabilmente invidiavano i miei successi. Io ero migliore di loro, destinato a un futuro glorioso.
Un giorno come un altro, il Re Echinosse mi convocò. Era la prima volta che parlavo con il Re senza l’intero conclave al seguito. Me lo ricordo ancora quel giorno, vivido e indelebile nella memoria come se fossero trascorsi solo pochi attimi da allora.
Re Echinosse congedò le guardie e mi invitò a sedermi su un grande cuscino di seta ai suoi piedi.
Appariva pensieroso e mi ricordo di aver pensato che fosse triste. Ma non sono mai stato molto bravo a comprendere le molteplici sfumature che il volto umano può assumere. I numeri per me non sono mai stati un mistero, ma gli intricati meandri dell’animo umano rappresentavano per me un territorio inesplorato, in cui non ho mai avuto interesse ad avventurarmi. Ricordando quel giorno con la consapevolezza di oggi, scorgo negli occhi di Echinosse la stessa ambizione che mi divora dentro, quel desiderio che muove l’anima dei più grandi alla ricerca dell’ineffabile, di quella conoscenza che porta al potere.
Ma sto divagando…
Dunque, ero accoccolato ai suoi piedi come un gattino in attesa delle sue attenzioni. Lui mi sorrise e iniziò a parlarmi con quella voce morbida e profonda che accompagnava le lodi che mi elargiva e che ancora oggi colora gli echi di quel passato.
«Aeron, so che hai fatto grandi progressi in questi ultimi due anni. Hai già appreso la lingua degli antichi e decifrato uno dei sette codici Voynich».
«Sì, Sire. Ma sono ancora indietro con lo studio per decifrare il secondo» dissi in tono dimesso.
«Non essere troppo duro con te stesso. E poi, l’eccesso di modestia può essere scambiato per incapacità».
«Solo dagli stolti, Sire» replicai abbassando la testa. Il Re mi mise la mano sotto il mento e mi sollevò il capo così da incrociare il suo sguardo. Allargò il suo sorriso.
«Hai mai sentito parlare della Biblioteca dei Perduti?» chiese dopo qualche attimo di silenzio.
E quale studioso, che si fosse definito tale, non ne aveva sentito parlare? Si trattava di un’antica biblioteca che si diceva appartenesse a una remota civiltà andata perduta. La sua ubicazione era sconosciuta. Solo qualche vetusta mappa ne segnalava ancora l’esistenza: un puntolino d’inchiostro, consumato dal tempo, nel cuore del Deserto dei Sussurri. Per raggiungerla dovevi superare le montagne che separavano il nostro mondo dalle lande desolate del Continente Oscuro.
Il Re doveva aver intercettato la scintilla che brillava nei miei occhi avidi di conoscenza e sono sicuro che fu in quel momento che capì di avere davanti la persona giusta per quella missione.
«Mio padre, e suo padre prima di lui, ne sono stati ossessionati» iniziò a raccontare il sovrano, «e io ne ho ereditato il retaggio». Distolse lo sguardo dal mio viso per andare a scrutare il buio oltre la grande finestra della sala del trono. «Sono stati inviati diversi esploratori nel corso dei secoli, tutti spariti nel nulla senza lasciare traccia. Uomini impavidi, di grande saggezza e resilienza». La sua espressione si incupì. «Quei pochi che sono riusciti a fare ritorno sostenevano che la biblioteca non esistesse davvero, raccontavano di aver girato in lungo e in largo in quelle terre dimenticate dagli Dei senza trovare nulla, perdendo amici e compagni in una ricerca senza fine».
Mi protesi verso di lui con aria cospiratoria.
«Qualcun altro sostiene che chi è scomparso cercandola l’abbia in verità trovata ma, soggiogato dal suo mistero, non sia stato più in grado di fare ritorno per raccontarlo». Pronunciai quelle parole con una sicurezza che non pensavo di avere. «Forse quel posto non esiste per chi non sa dove cercare» sussurrai ancora al Re di Merath.
Da lì a pochi giorni fu organizzata la spedizione. Come guida, mi fu assegnato un vecchio cartografo di nome Moussa. Scortato da un pugno di soldati scelti, partii alla volta del Continente Oscuro.
Non sto a raccontarvi i dettagli di quell’interminabile viaggio che fin dai primi giorni si rivelò la risposta ai più infausti presagi. Vi dico solo che attraversammo foreste infestate da mostri che solo nei miei incubi di bambino avevo immaginato esistere, e deserti dove il sole ti divora la pelle fino alle ossa. Valicammo montagne ricoperte di ghiaccio e sferzate dai venti freddi del nord. Se all’inizio ci animava lo spirito d’avventura, a metà del cammino cominciammo a perdere la speranza, non solo di trovare la biblioteca, ma anche di fare ritorno a casa.
Iniziava a scarseggiare il cibo e facevamo sempre più fatica a cacciare. Moussa non riuscì a superare una brutta febbre che si portò via anche gli altri componenti della spedizione, uno dopo l’altro. In poco tempo rimasi solo a vagare per una distesa di sabbia senza fine, sotto un sole così torrido che il riverbero di calore distorceva la vista quanto i miei pensieri.
Non mi dispiaceva per Moussa e gli altri. Alla fine, erano caduti compiendo il loro dovere. Ma l’idea che anche io, come loro, avrei trovato una morte così indegna mi mandava in bestia. Io ero destinato alla grandezza. Non potevo soccombere prima di raggiungere l’obiettivo tanto agognato.
Se avessi avuto accesso alla Biblioteca dei Perduti avrei avuto così tanto potere che qualsiasi saggio o sovrano al mondo si sarebbe dovuto inchinare al mio cospetto, riconoscendo la mia superiorità. Quel pensiero era l’unica cosa che mi sosteneva e mi impediva di soccombere.
Avevo perso la cognizione del tempo, doveva essere trascorso qualche mese dall’inizio del viaggio, ma mi sembrarono secoli. Camminavo con lo sguardo fisso sui miei piedi, come se appartenessero a qualcun altro, avvolti in stracci macchiati di sangue, il mio sangue. Li osservavo muoversi, uno davanti all’altro, guidati da una cieca determinazione.
La luna piena fu improvvisamente oscurata da una tetra cappa di nuvole e non vidi più nulla.
Fu lì che pensai che per me fosse arrivata la fine.
Ero ormai al limite. Non sentivo più i morsi della fame, e la sete cronica si era cristallizzata in uno stato perenne, dove l’assenza d’acqua non era più neanche una privazione, ma una condizione naturale dell’essere.
Quando l’occhio del cielo si liberò del suo velo plumbeo, all’orizzonte scorsi la sagoma scura di abitazioni in pietra incastonate in una montagna. Raccolsi le ultime energie e attraversai quel paesaggio spettrale. La luce argentata della luna creava strane illusioni di ombre in movimento tra gli edifici arroccati, o forse era solo la mia immaginazione. Ormai rassegnato a morire, non avevo più paura di nulla.
Raggiunsi una costruzione che sembrava più conservata delle altre, forse anche perché era quasi interamente inglobata dalla montagna. Mi avvicinai a quello che doveva essere l’ingresso. Era così nero che il portone mi sembrò fatto di ossidiana. Allungai un braccio in avanti mentre procedevo, in attesa di sentire il freddo della pietra ma, con mia grande sorpresa, la mano scomparve in una spessa coltre di tenebre. Mi fermai di colpo, indeciso se proseguire. Le dite cominciarono a diventare fredde, e il freddo si trasformò in dolore. Spinto dalla consapevolezza che ormai non avevo più nulla da perdere, mi inoltrai in quella oscurità innaturale. Quando ne riemersi, dovetti coprirmi il viso con le mani a causa dell’impatto con la luce. Non era intensa, tutt’altro. Ma dopo aver attraversato un buio così fitto anche quel bagliore soffuso mi era sembrato un fuoco che divampa.
Davanti a me la Biblioteca dei Perduti si estendeva in tutta la sua grandezza. Una torre a base pentagonale, formata da infiniti ripiani di libri, si alzava percorrendo in verticale l’interno della montagna, arrivando a perdersi in una caligine opaca che ne celava la fine, dando l’impressione di non avere termine.
L’avevo trovata. Io, Aeron di Ekofonia, ero riuscito a svelare un enigma irrisolto da secoli, forse millenni. Se avessi avuto ancora delle lacrime per piangere, l’avrei fatto.
Mi addentrai nell’ampio salone con la disinvoltura di un padrone di casa che torna nella propria dimora dopo una lunga assenza.
Ero circondato da tomi, così tanti che gli scaffali si perdevano alla vista, inoltrandosi nella fitta nebbia che esalava dalla cima. Tutti i libri emanavano dal loro interno un baluginio soffuso, che pulsava con lo stesso ritmo del respiro, come se fossero vivi. Al centro della sala, un leggio in granito nero attirò la mia attenzione. Sopra era appoggiato un libro rilegato in pelle, era aperto e sembrava chiamarmi a sé.
Esitai. Non per paura, ma per l’emozione che mi stava sopraffacendo.
«Cosa stai cercando, ragazzo?»
Sobbalzai. La voce rimbombò per tutta la sala, ma la luce che pulsava tra le pagine del libro, scandendo le parole, segnalava la sua origine all’interno del tomo.
Mi feci coraggio e cercai di mantenere un tono sicuro e determinato.
«Cerco la conoscenza suprema. La sapienza assoluta, quella che penetra ogni mistero dell’Universo».
«Capisco». Rimase in silenzio come a soppesare la mia risposta, e poi riprese a parlare. «E sei disposto a qualsiasi sacrifico per ottenerla? Sei pronto a pagare qualsiasi prezzo?»
In quel momento pensai ingenuamente che la cosa peggiore che mi sarebbe potuta accadere sarebbe stata la morte. Non avrei mai pensato a un destino più infausto di quello che si abbatté su di me quando risposi: «Sì, certo. Qualsiasi cosa».
Mi misi a leggere e, man mano che procedevo nello sfogliare le sue pagine, la mente si perdeva e con essa la mia anima.
E ora eccomi qui. Bloccato per sempre in questo libro. Certo, posso accedere a qualsiasi nozione o mistero dell’Universo, ma a che pro? Sono imprigionato all’interno di questo antico tomo, neanche fossi una delle tante parole scritte sulla sua carta. Ora sono il Custode di questa Biblioteca, circondato dalle anime di altri sventurati, e solo se qualcun altro si presenta innanzi a me con la stessa avidità di sapere che ho avuto io al tempo, sarò libero.
Era passato così tanto tempo che ormai avevo perso le speranze, quando d’un tratto percepii la presenza di qualcuno che si sta avvicinando alla montagna.
Un uomo anziano aveva superato il portale oscuro e si aggirava per la biblioteca. Non ci potevo credere. Eccola finalmente la mia salvezza. Ma, dopo aver dato una rapida occhiata, il vecchio sembrò perdere interesse e fece per andarsene. Ma che stava facendo? Quale uomo dotato di un minimo di acume reagisce così davanti a tanta bellezza? Doveva trattarsi di un folle. Non c’era altra spiegazione.
«Ehi, tu. Avvicinati».
L’uomo si bloccò sul posto e si guardò in giro frastornato. Aveva un aspetto dimesso, la schiena curva, e si reggeva su un bastone.
«Chi sei?» chiese con voce roca.
«Sono il Custode di questa biblioteca. Vieni qui» gli ordinai.
A malincuore zoppicò fino a raggiungermi.
«Sei un libro parlante?» fece lui, e si mise a toccare le mie pagine senza il minimo rispetto, come se stesse valutando la qualità della lana di una pecora.
«Cosa sei venuto a fare?» chiesi, ignorando la sua domanda.
«Io e la mia gente abbiamo trovato un pozzo qui vicino». La sua voce era arrochita dagli anni, ma ferma. «Ci accamperemo per qualche giorno. Stavo dando un’occhiata in giro…»
«Non è certo per un caso che sei qui, viandante. Era destino che mi raggiungessi».
Lui corrugò la fronte e mi rivolse uno sguardo diffidente.
«Ora è meglio che vada» e fece per voltarsi.
«Aspetta! Io posso offrirti qualcosa che nessun altro potrebbe donarti».
«E cosa sarebbe?» chiese, senza mostrare particolare interesse.
«La conoscenza» proclamai in tono altisonante.
In tutta risposta, il vecchio scoppiò a ridere.
«Pensa a tutto il sapere a cui potresti accedere?» insistetti, sorvolando sulla sua reazione. «Sapresti ogni cosa. Saresti in grado di risolvere qualsiasi mistero, rispondere a qualsiasi domanda».
«E dimmi. A cosa mi servirebbe?» L’uomo era tornato serio.
«La conoscenza è potere».
«Può darsi, ma io so a malapena leggere» disse lui. Stava ancora sorridendo. Non riuscivo a capire se fosse un ghigno o un sorriso consolatorio. Aver trascorso così tanto tempo in questo posto non aveva certo migliorato la mia capacità di discernere gli infiniti stati umorali degli uomini.
«Ora devo andare. Le mie figlie mi aspettano, e se tardo si preoccuperanno» disse il vecchio.
«No, non andartene» urlai, mentre lui si incamminava verso l’uscita. Con il suo passo incerto raggiunse il portale.
«Non andartene» insistetti in tono più basso. Lui si fermò e si voltò a guardarmi.
«Se vuoi, domani torno a trovarti» e, senza aspettare una risposta, se ne andò.
Mi convinsi che sarei riuscito a persuaderlo. Mi animai delle aspettative più rosee. Che non sapesse leggere non aveva alcuna importanza. Una volta che avesse espresso il desiderio di accedere alla conoscenza di questa biblioteca avrebbe rotto il sigillo, liberandomi dalla mia prigione.
Il vecchio mantenne la parola. Si presentò l’indomani, e il giorno dopo ancora.
Io gli svelavo i misteri dell’Universo per cercare di ammaliarlo, gli promettevo la conoscenza e il potere che ne derivava, ma sembrava impermeabile a qualsiasi lusinga. Invece lui mi ammorbava con storie sulla sua gente, aneddoti sulle figlie e sui suoi nipoti. Parlava con voce sommessa della povertà del suo popolo, per poi animarsi quando raccontava della solidarietà che li teneva uniti, e di come si aiutassero a vicenda.
Come poteva quello stolto accontentarsi di quella miserabile vita.
Dovevo liberarmi del mio giogo e provavo ad ogni occasione di allettarlo con le più affascinanti nozioni filosofiche, o elencavo le leggi che regolano i moti dei corpi celesti. Lui si limitava ad ascoltare in silenzio. A volte teneva gli occhi bassi, annuendo di tanto in tanto.
All’inizio, mi innervosiva. Trovavo frustrante la sua ottusa ritrosia, ma poi mi scoprii ad attendere le sue visite con una certa impazienza. E ad accoglierlo con un sospiro di sollievo quando lo vedevo sbucare dal buio dell’ingresso. Il vecchio continuava a riportarmi episodi della sua vita di tutti i giorni. A volte rideva, raccontandomi di una qualche scherzo subito dai nipoti, e altre volte le lacrime gli rigavano il volto mentre mi aggiornava sulle tribolazioni della sua gente.
Stavo perdendo le speranze di far cedere quell’ospite canuto e totalmente privo di ambizione.
Trascorsero giorni e poi settimane. Il vecchio mi faceva visita puntualmente, senza mai saltare un appuntamento. Si sedeva ai piedi del leggio, appoggiava a terra il bastone, sospirava e iniziava a parlare. Lo interrompevo sempre meno e, per quanto mi parlasse di banalità per me senza senso, mi trovai a rilassarmi nell’ascoltarlo, come fa un bambino al quale si raccontino delle favole prima di addormentarsi.
«È tempo che riprendiamo il cammino» disse un giorno il vecchio.
«Come? Te ne vai?»
«Il pozzo è ormai prosciugato. Dobbiamo cercare un altro luogo dove accamparci» fece lui, e si diresse verso l’uscita.
Mentre guardavo quell’uomo che si allontanava zoppicando, sentii uno strano dolore dentro. Non riuscivo a capire di che si trattasse. Non lo avevo mai provato prima. Per un attimo, mi sembrò di essere altrove, come se avessero spostato il libro e io avessi un’altra prospettiva della biblioteca. Poi, il dolore si fece più acuto e mi prese il panico. Allora lo ricaccia dentro, lo spinsi nelle profondità del mio essere, in quel posto sconosciuto da dove era probabilmente arrivato.
«Sei uno stolto» urlai al vecchio. «Se accettassi tutta la conoscenza che ti offro, potresti vivere per sempre».
L’uomo si fermò e mi guardò per qualche istante. Una lacrima percorse tutta la lunghezza della sua guancia e, quando arrivò alla bocca, lui l’asciugò con una mano e sorrise.
«Addio» disse, e si allontanò zoppicando verso l’uscita. Superò la spessa oscurità del portale e sparì alla mia vista, per sempre.
A volte, mi perdo a fissare il buio che separa la biblioteca dal mondo di fuori, e immagino che quel vecchio ottuso entri di nuovo per quella porta, che si sieda accanto a me e riprenda a raccontarmi le sue stupide storie. Ma non accadde mai.
Il mio nome è Aeron, Aeron di Ekofonia, e questa è la Biblioteca dei Perduti.
Qui giungono coloro che bramano la sapienza oltre ogni immaginazione.
Se mai raggiungerai questo luogo arcano, ricorda: la conoscenza è potere, e io sono in grado di offrirtela.
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