La Viaggiatrice

Imparai presto che il mondo è fatto a scomparti.

Ci spostiamo continuamente da un luogo all’altro per tutto il corso della nostra vita; da luoghi più piccoli, come stanze e appartamenti, per poi passare a città e continenti. Più velocemente ti sposti, più facilmente ti rimane nella testa l’impressione del posto da cui sei partito; poi la mente si prodiga a farti adattare alla nuova situazione, e tutto quello che era davanti a te un momento prima finisce per essere sostituito dal presente.

Un giorno, feci uno dei miei viaggi di lavoro – non è importante sapere il perché e il dove –, e mentre ero in aeroporto scorsi dietro di me una scia evanescente, una sorta di coda dai colori cangianti dell’arcobaleno. Mi resi conto che ero solo io a vederla.

Si perdeva in lontananza, ma dentro di me ero sicura che arrivasse fino al luogo da cui ero partita.

Fino ad allora avevo avuto solo delle sensazioni, ma quella volta vidi con i miei occhi la corda di collegamento.

Nel corso della stessa giornata sono passata dalla camera d’albergo, a fare le valigie in un paese straniero, al bagno di casa mia a lavarmi i denti. Mentre ero china sul lavabo, una parte della mia mente era ancora nella stanza dell’hotel poco prima di uscire e andare all’aeroporto. Vedevo le mie mani armeggiare con gli indumenti, la tappezzeria verde scura della camera, e le tende di lino bianco. Quell’immagine si confondeva con le piastrelle bianche e nere del bagno di casa, con il mio riflesso nello specchio e il sapore del dentifricio in bocca, come fossero tutti colori di un’unica tavolozza nella quale non fosse più chiaro dove iniziasse l’uno e finisse l’altro; poi all’improvviso, prese forma questo posto nuovo, che aveva il lavandino e le piastrelle bianche e nere, ma anche il letto, la tappezzeria verde e la valigia… Un luogo dove ero in entrambi i posti contemporaneamente.

Mi sentivo strana, come fossi su un canale mal sintonizzato.

Ero consapevole che da lì a poco la mia mente avrebbe aggiustato tutto, separando le due realtà in maniera netta, e archiviando in modo efficiente i ricordi. Una volta accaduto, la scia di colore sarebbe sparita, e il collegamento tra i due luoghi si sarebbe interrotta definitivamente ma, negli attimi immediatamente precedenti, mi sembrò di essere in due posti diversi nello stesso tempo, e forse fu così.

Era la prima volta che mi capitava in maniera così evidente, ma poi fecero seguito altri episodi.

Quando ero poco più di una ragazzina, avevo pensato che queste strane sensazioni fossero comuni a tutti, ma con il tempo mi resi conto che non era affatto così ma che, al contrario, si trattava di qualcosa di unico, di un fenomeno decisamente inusuale.

Dopo quella prima volta in cui avevo individuato la corda di collegamento, iniziai ad avere la sensazione di essere osservata. Per un certo periodo pensai addirittura di vivere in una specie di realtà virtuale, o di essere una cavia di laboratorio per qualche studio comportamentale gestito da alieni; e sì, mi venne anche l’idea di essere completamente matta e, per ovvie ragioni, continuai a non dire nulla a nessuno.

Senza prendere appunti scritti – per evitare di lasciare tracce nell’eventualità, neanche tanto assurda, che potesse trattarsi veramente di un esperimento scientifico organizzato da alieni, o da chissà quale organizzazione governativa segreta – continuai nella mia osservazione silenziosa del fenomeno.

Notai che l’impronta che lasciavo in un posto si comportava come l’orma di un piede sulla sabbia bagnata di una spiaggia: il tempo che l’acqua del mare riempisse lo spazio vuoto lasciato dal mio passaggio, e ogni traccia di me era scomparsa. Si trattava di una specie di gioco di riempimento degli spazi, come accadeva con quegli affari antistress che schiacci deformandoli e che, una volta lasciata la presa, riassumono la loro forma iniziale. La stessa cosa accadeva allo spazio che distorcevo al mio passaggio: dava l’impressione di allungarsi quando mi spostavo, per poi coartarsi nel punto in cui i due luoghi si embricavano tra loro temporaneamente, come quando i lembi opposti di un lenzuolo si uniscono nel momento in cui lo si piega.  E poi tutto tornava a posto.

È difficile spiegare quello che provavo in quelle circostanze, e scrivere qui le mie sensazioni mi aiuta a mettere insieme i pensieri in un qualche ordine sensato, almeno per me.

Poi un giorno accadde.

Mi trovavo a casa, sempre nel mio bagno. Mi ricordai improvvisamente di un locale in cui ero stata a Londra circa una settimana prima, si trattava di una pasticceria che mi era piaciuta molto. C’ero andata con un’amica per fare merenda e, in quell’occasione, mi ero guardata bene attorno osservando l’ambiente circostante: i pavimenti di marmo, le vetrine allestite con alzatine ricolme di pasticcini e torte decorate, il bancone con i contenitori di vetro traboccanti di caramelle e cioccolatini, e l’arredamento in stile shabby-chic.

Richiamai alla memoria ogni particolare del posto e decisi, semplicemente, di andare in quel luogo. Non ebbi alcun indugio, nessun dubbio; visualizzai la corda di collegamento, focalizzai l’intenzione, chiusi gli occhi e tirai.

Sentii solo un formicolio lungo la spina dorsale e, quando sollevai le palpebre, realizzai di non essere più nel mio bagno, ma all’interno di quella pasticceria, a Londra.

Era chiusa, le saracinesche erano abbassate, ed era buio; riuscivo a vedere grazie alla luce dei lampioni accesi fuori dal negozio che illuminavano l’interno attraverso le maglie della serranda di metallo. Ero in pigiama, e fui colta dal panico, non tanto per la sorpresa di essere lì – alla fine era la conferma di quello che avevo sempre supposto e che prima o poi ero certa sarebbe accaduto –, ma perché ero terrorizzata dal pensiero che non sarei più riuscita a tornare indietro.

Cercai di rilassarmi, feci dei lunghi respiri e mi guardai in giro.

Non c’era nessuno, e ogni cosa era esattamente come mi ricordavo: le caramelle e i biscotti erano ancora dentro i loro contenitori di vetro, mentre altri dolciumi erano stati spostati in frigoriferi trasparenti.

Allungai la mano verso un’alzatina in ceramica sul bancone di legno, era piena di macaron, ne presi uno di colore giallo – più per avere un souvenir, una prova di essere stata lì, che per gola –, e mi concentrai sul ritorno. Feci un paio di tentativi prima di riuscirci, ero nervosa e facevo fatica a focalizzare l’attenzione, ma alla fine tornai a casa.

Una volta al sicuro nel mio bagno, guardai il pasticcino nella mia mano che aveva attraversato lo spazio con me fino a lì. Ci ero riuscita, era accaduto veramente.

Ero così eccitata che non chiusi occhio tutta la notte, continuavo a guardare il macaron, appoggiato sul mio copriletto come una sacra reliquia, temendo che da un momento all’altro sarebbe sparito. Non lo fece, e la mattina a colazione lo mangiai; sapeva di macaron al limone.

Grazie al mio lavoro avevo viaggiato molto, e continuai a farlo in maniera tradizionale, ma nell’ultimo anno utilizzai anche la corda di collegamento per tornare nei posti dove ero già stata. Dopo il primo goffo tentativo, mi attrezzai meglio portandomi dietro abiti consoni, e abbastanza denaro da non dover usare la carta di credito. Era bellissimo spostarsi da un capo all’altro del mondo in pochi secondi, senza biglietto aereo, senza controlli o tracce del mio passaggio. Per precauzione pagavo sempre in contanti e cercavo di eludere le telecamere; non mi fermavo a dormire negli hotel per evitare di dover fornire i miei documenti e, se ero stanca, semplicemente tornavo a casa mia a riposare.

Fu un anno meraviglioso.

L’unico aspetto negativo era la sensazione di essere osservata; non mi abbandonava mai, e persisteva come il retrogusto di medicina quando la mandi giù e, per quanta acqua bevi, rimane lì ad alterare il sapore del cibo a ogni pasto successivo.

Un sabato mattina, mi trovavo su una panchina nel parco Montsouris a Parigi, stavo leggendo un libro e mi godevo il sole tiepido della primavera, quando un uomo si sedette accanto a me.

«Buongiorno» disse l’uomo senza esitazione.

«Buongiorno…» risposi titubante. «Ci conosciamo?»

«La osserviamo da molto tempo, signorina».

L’uomo era vestito con un completo scuro di quelli che portano gli uomini d’affari: giacca, cravatta, camicia bianca e scarpe nere di vernice, nell’insieme aveva un’aria anonima; e anche il suo aspetto lo era: capelli neri leggermente brizzolati ai lati, lineamenti regolari e occhi nocciola. Non si poteva dire fosse sgradevole, ma non lo si poteva definire nemmeno attraente, insomma, una di quelle persone che dimentichi facilmente.

«Chi è lei?» chiesi diffidente.

Avrei potuto sparire nella frazione di un secondo e tornare a casa, ma avrei dato nell’occhio e avevo la sensazione che mi avrebbe ritrovata dovunque fossi andata.

«Non ha importanza, le assicuro. Dobbiamo parlare».

L’uomo continuava a guardare davanti a sé; da quando si era seduto non mi aveva degnata di uno sguardo.

«Deve esserci stato un errore nella sua programmazione iniziale, temo».

Il suo tono di voce era calmo e neutro, come quello che avrebbe potuto avere un impiegato postale dietro il suo scudo di plexiglass trasparente.

«Non ho la più pallida idea di quello di cui sta parlando, e se non la smette di importunarmi chiamo la polizia». Non lo dissi in maniera molto convincente, e lui lo sapeva.

«E come giustificherà la sua presenza qui, una volta che le chiederanno i documenti e il nome dell’albergo in cui alloggia?» domandò prosaico, senza alcuna traccia minacciosa nella voce.

«Cosa vuole da me?» chiesi allarmata, era evidente che conosceva il mio segreto.

«Lei è una viaggiatrice, e in questo non c’è nulla di male. Un giorno, tra parecchi secoli, utilizzare alcune specifiche funzioni cerebrali per permettere al proprio corpo di spostarsi da un posto all’altro sarà un’abilità comune tra la maggior parte degli esseri umani. Ma non in questo tempo».

«Non l’ho deciso io, è capitato. Non potete accusarmi di nulla».

L’uomo sorrise per la prima volta, ma continuò a non guardarmi.

«Certo, cara, che non è colpa sua. Qualcuno, forse per sbaglio o intenzionalmente – stiamo ancora indagando in merito – ha attivato alcuni suoi geni che normalmente sono silenti nel vostro DNA. Solo che con i suoi… viaggi, sta destabilizzando la trama della realtà. È come se ci fosse un glitch nel suo software che sta provocando un effetto domino sugli altri programmi.  Sa che cos’è un glitch, signorina?»

«Sì, più o meno. È il comportamento anomalo di un programma, di un videogioco, ad esempio, che permette al giocatore di avere dei vantaggi che non erano previsti…»

«Una cosa del genere».

L’uomo era seduto sulla panchina in una posa rilassata, e teneva le mani appoggiate ai lati con i palmi aperti verso il basso, come se non sapesse bene cosa farci.

«E adesso cosa succede?»

«Dobbiamo procedere con la riparazione, dobbiamo correggere il bug».

«E se io non volessi?» chiesi titubante.

«Noi non possiamo riparare l’errore senza il suo permesso, ma possiamo procedere con il suo ritiro se necessario. La scelta sta a lei» concluse l’uomo senza lasciar trapelare nessuna emozione. Non c’era bisogno di chiedere cosa intendesse per “ritiro”, era abbastanza prevedibile.

«Farà male? Voglio dire… la riparazione. Sentirò qualcosa?»

«Assolutamente no, lei non si accorgerà di nulla».

«Dimenticherò tutto, vero?»

«Certamente».

«Non mi dirà nient’altro?»

«A che scopo? In ogni caso, dimenticherà ogni cosa».

«Già, immagino sia inutile» dissi ormai rassegnata.

Vivere in quel modo, senza alcuna barriera spaziale, era stato bello, anche se si era trattato di così poco tempo. Pensai che se non mi fossi ricordata di nulla, non ne avrei sentito la mancanza.

«Ok, non credo di avere scelta. Faccia quello che deve».

La luce del sole che filtrava dalle persiane la destò prima che lo facesse la sveglia. La ragazza si alzò e andò in bagno per lavarsi e vestirsi. Era mercoledì, e doveva essere in ufficio prima del solito per la riunione settimanale. Si passò l’asciugamano di spugna sulla faccia e si guardò allo specchio.

D’un tratto, fu colta da una sensazione strana, come se dovesse ricordare qualcosa di importante. Ebbe la percezione di aver già vissuto quel momento, poi pensò che fosse ovviamente così; quante volte era già stata in quel bagno, il suo bagno, a lavarsi la faccia, o a guardare il suo volto nello specchio? Rimase lì ferma per qualche istante a fissare la sua immagine riflessa, poi squillò il telefono nella stanza accanto, si scosse dai suoi pensieri e si diresse in camera a rispondere.

La ragazza non ricordò mai quel qualcosa che le sembrava di aver dimenticato, e magari non c’era nulla da ricordare, ma rimase persistente nella sua vita quella strana sensazione di familiarità nei confronti di persone che non aveva mai conosciuto, e di esperienze che era sicura di non aver mai vissuto; spesso, inoltre, le sembrava di riconoscere dei posti dove non ricordava di essere mai stata.

Le dissero che si trattava di déjà-vu; le spiegarono che era un fenomeno comune di cui facevano esperienza molte altre persone, e che non si sarebbe dovuta preoccupare di nulla, che tutto sarebbe andato al suo posto.


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